Aprile 18, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

L’Europa dei veti al voto: l’analisi del Patto di Stabilità che verrà

Con il suo veto, l’Ungherese Viktor Orban ha bloccato gli oltre 50 miliardi di aiuti destinati a Kiev e a breve potrebbe essere il turno dell’Italia, con Meloni e Giorgetti, pronti a fare altrettanto, riproponendo il copione sovranista sul tema del Patto di Stabilità. Da sempre oggetto di contese e di sotterfugi volti a poterne posticipare gli effetti negativi all’anno, o nel caso dell’Italia, al governo successivo. Tuttavia, e al di là di quel che spera Roma, la scelta sul Patto di Stabilità è una scelta sulla guida dell’UE di domani e non è affatto scontata, come invece si potrebbe credere.

I 26 anni dall’entrata in vigore del Patto di Stabilità

L’UE, attraverso la banca centrale dell’Unione Europea (la BCE), ha come mandato quello di mantenere stabili i prezzi attraverso politiche monetarie espansive – attraverso il famoso Bazooka di Draghi –  oppure restrittive – com’è da un anno a questa parte, con l’inasprimento dei tassi d’interesse. La fiscalità, invece, spetta ai singoli Paesi membri, i quali si sono auto-imposti, nel lontano 1997, un articolato sistema per garantire la stabilità dei bilanci pubblici, che in sintesi suona più o meno così: coloro che hanno un alto debito nazionale devono fare scendere il debito, gli altri possono spendere nei limiti della moderazione, salvo casi eccezionali (il famoso 3%).

Debito pubblico e deficit dividono l’UE

Sin qui la storia nota, però ve ne è un’altra meno conosciuta e che ci racconta i fallimenti del meccanismo sottostante il Patto di Stabilità. Dal 2002 in poi, infatti, ben pochi Paesi sono davvero riusciti a rispettare i parametri concordati ed è evidente – dal grafico qui sotto – come il rapporto debito/pil segni una frattura tra i membri dell’UE. Da una parte i famigerati frugali – Germani, Olanda, Repubbliche baltiche, Lussemburgo e Paesi del Nord – dall’altra, invece, il sud, capitanato da Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Francia. Nei fatti nessuna delle potenze dell’Unione – Germania, Francia e Italia – ha mai raggiunto il tanto agognato 60%.

Fonte: OCSE – GDP Nazionale dal 2002 al 2022 https://data.oecd.org/gga/general-government-debt.htm#indicator-chart

I deficit, invece, presentano una lettura più incerta. All’alba del lancio dell’euro, tra il 2002 e il 2003, né la Francia, né la Germania erano nel perimetro del 3%. La prima era al 4%, mentre la seconda al 3,7%, ben poca cosa rispetto al 7,8% della Grecia di allora, ma comunque molto sopra all’Italia e Spagna, rispettivamente 3,2% e 0,4%. La successiva crisi dei mutui subprime ha livellato, verso il basso, tutti i Paesi dell’area Euro e lo stesso è accaduto con la pandemia. A conti fatti sono più gli anni in cui il meccanismo del fiscal compact non ha funzionato di quelli dove effettivamente è stato rispettato, ma soprattutto – e qui i suoi detrattori hanno gioco facile – salvo rarissimi casi, come quello dell’Irlanda – non ha portato i Paesi in difficoltà a raggiungere né il rapporto debito/pil al 60%, né il deficit entro il 3%.

Regole ed errori. Che cosa non ha funzionato col Patto di Stabilità?

Di per sé né un parametro, né una regola, nascono come buoni o cattivi, ma lo diventano in rapporto alle conseguenze che essi generano e nel caso del Patto di Stabilità la sentenza è ardua. Più i conti sono in ordine, ovvero il rapporto tra entrate e uscite è a favore delle prime, meglio è, perché ciò consente di attivare politiche anti-cicliche in caso di crisi (come nel 2008, nel 2011 e nel 2020) o improvvisi cambi di rotta (come nell’abbandono di alcune catene di approvvigionamento o tecnologie). Tuttavia, e qui è il principale problema, se per far quadrare i conti si riducono sanità, istruzione e investimenti, il gioco non vale la candela, poiché si baratta il futuro per il presente.

Quindi la spesa pubblica va sempre bene? No e il caso dell’Italia ne è la prova. In Italia si è sempre scelto – anche quando alla guida c’erano i tecnici – di tagliare voci di bilancio a basso costo elettorale. Si tratta di misure che incidono su platee di elettori che disertano le urne – come i giovani – o di nicchie – le famose pensioni d’oro – senza però intaccare sistemi di mance ben collaudati ed oliati. Col risultato che l’Italia spende tanto: solo in welfare se ne vanno 632 mld di euro all’anno, ma per avere una visita col Sistema Sanitario Nazionale pubblico occorrono mesi, se non anni.

Bruxelles deve scegliere tra il rigore o la crescita

C’è un problema, ed è politico, sia a Bruxelles come a Roma. In UE è urgente una chiamata alla realtà dei fatti, perché come diceva Keynes, quando i dati cambiano occorre cambiare la propria posizione. Attuare misure pro-cicliche, com’è stato fatto con l’austerity del 2011, non ha prodotto grandi risultati, anzi, e per capirlo basta osservare i conti pubblici italiani. Ma d’altra parte per l’Italia non c’era alternativa in quel frangente per abbassare lo spread.

Pochi anni fa è stato approvato il Next Generation EU e la musica sembrava cambiata. Tuttavia le odierne trattative sul Patto di Stabilità pare vogliano far prevalere ancora la teoria sulla realtà. In questo momento è necessario attingere a fondi, anche pubblici e ingenti, per promuovere quelle transizioni senza le quali sarà impossibile mantenere gli attuali standard di competitività, la stessa in virtù della quale si sono già compiuti così tanti sacrifici.

Svendita o investimento: l’Italia deve scegliere.

A Roma, invece, si rende altresì necessario un cambio di rotta, ma in senso opposto. La (s)vendita delle aziende nazionali (Ilva, Ita, Tim etc.) ha sì evitato il continuo sperpero di denaro pubblico, ma ha anche evidenziato l’incapacità di gestione da parte del Pubblico e questo è preoccupante. Si è infatti visto, soprattutto con la pandemia, come una gestione della sanità in mano ai privati non aiuti, anzi, perché viene scartato ciò che non è redditizio in funzione di ciò che invece lo è. E uno Stato che si definisca tale non può permettersi di allocare servizi essenziali a terzi, deve invece imparare a gestirli e farli funzionare per il bene della collettività.

Occorre investire in una nuova classe dirigente pubblica e bloccare, ove possibile e tra l’altro già indicato da più di un commissario alla spending review, quei mille rivoli che alimentano sì ampi sistemi clientelari utili alle urne, ma che al contempo sul lungo periodo impongono le svendite di beni pubblici, le inefficienze e l’utilizzo di regole draconiane.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini