Dicembre 1, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

L’adozione del Decreto Legge 2 marzo 2024 n.19, e in particolare dell’articolo 38, è passata sottotraccia, inosservata. D’altronde, nelle ultime settimane l’attenzione del Paese si è rivolta prima alle proteste dei balneari, poi degli agricoltori, con qualche comparsa dei tassisti: insomma, è evidente che sia la stampa sia l’opinione pubblica non hanno ben chiaro quali siano i settori produttivi in cui l’Italia non solo eccelle, ma sia anche una vera e propria potenza.

Ci si è invece convinti che l’ottava economia mondiale abbia le proprie fondamenta nel turismo, nell’agricoltura e nella moda, ovviamente. A chi scrive vengono in mente, con un sorriso, le parole pronunciate da Indro Montanelli, intervistato da Alain Elkann, con le quali l’ormai anziano giornalista descriveva gli italiani come un popolo di sarti, di albergatori, i migliori quando si tratta dei mestieri servili. Nulla di più falso, ovviamente, ma chissà per quale motivo si tratta di una convinzione ampiamente diffusa in tutta la Penisola, forse anche per la tragica e irresponsabile gestione, salvo gli anni di Marchionne, dell’unica manifattura di cui i media si sono interessati, ovvero il settore automobilistico.

La produzione industriale italiana e il nuovo piano Transizione 5.0

Non è quindi raro imbattersi in giornalisti e scrittori, anche di notevole caratura, che descrivono l’Italia come un paese “industrialmente in disarmo”, nonostante la produzione industriale sia cresciuta in maniera solida e costante negli ultimi anni, scontando tuttavia le tensioni commerciali internazionali, la pandemia, l’aumento vertiginoso dei costi delle materie prime, i colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento e l’incremento del costo del denaro, oltre che l’invasione dell’Ucraina (mentre la guerra di Gaza non sta avendo effetti economici rilevanti e ancora non è chiaro quale sia l’impatto degli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso).

Cosa riguarda, quindi, l’articolo 38 di cui sopra? Si tratta del nuovo piano Transizione 5.0, il quale prevede la possibilità di usufruire di un credito d’imposta che può variare dal 35% al 45% per le imprese che investono nei campi dell’innovazione tecnologica, digitale e ambientale.  Questo IRA in miniatura ricalca Industria 4.0, varato nel 2016, con l’aggiunta degli elementi ecologici ed energetici, ed è in gran parte finanziato attraverso fondi europei.

Una spinta ad investire sulle nuove tecnologie produttive

Concretamente, significa incentivare in maniera decisa le aziende manifatturiere a investire in beni strumentali che permettano loro di automatizzare e digitalizzare i processi produttivi, oltre che di renderli più efficienti dal punto di vista ambientale e dei consumi.

La misura assume un’importanza ancora maggiore se si sottolinea che in molti di questi campi le imprese italiane dominano il mercato: per quanto riguarda il settore delle macchine utensili e dei robot industriali, ad esempio, solo Cina, Germania e Giappone sono superiori in termini di volumi prodotti ed esportati, ed in ogni caso l’Italia rappresenta un’eccellenza per quanto riguarda gli standard tecnologici.

Infatti, dopo il letargo industriale cominciato con il governo D’Alema e conclusosi con il III governo Berlusconi, non solo le aziende italiane si sono viste costrette a razionalizzare numerosi aspetti della produzione per rimanere competitivi nei confronti dei concorrenti, soprattutto tedeschi, ma anche il Governo, spesso o latitante o eccessivamente pervasivo, si è deciso a intervenire per migliorare il contesto operativo.

L’impresa funziona se funziona il Sistema Paese

Il Sistema Paese è infatti ormai considerato un elemento fondamentale in tutte le più recenti teorie commerciali, da Krugman a Porter: in termini di competitività, un’impresa singolarmente non può superare una certa soglia, mentre è compito dello Stato far sì che l’ambiente circostante favorisca ed incentivi, non sussidi, la produzione. Dunque, l’avvio del piano Industria 4.0 ha permesso alla manifattura italiana di accrescere la propria produttività rivolgendosi, a monte, a un mercato interno e a una filiera i cui processi di trasformazione si svolgono per la maggior parte sul territorio nazionale.

Un settore proiettato sull’esportazione poteva finalmente contare su una solida componente interna. Purtroppo, nelle ultime Leggi di Bilancio non sono stati inseriti i rifinanziamenti necessari e il credito d’imposta è sceso dal 50% iniziale, al 40% e infine al 20%. Ora, però, il piano Transizione 5.0 si prevede sarà determinante per la definitiva affermazione del vero Made in Italy, la cui resilienza e capacità non solo di adattarsi ma anche di reagire hanno sorpreso molti osservatori, anche rispetto alle industrie tedesche, giapponesi e cinesi, alle cui spalle vi sono strutture statali e burocratiche decisamente più efficienti nel supporto al sistema produttivo.

I rischi e le opportunità del piano Transizione 5.0

Tuttavia, a differenza delle misure precedenti, vengono incentivati anche gli investimenti nel campo energetico e ambientale, che sono settori in cui l’Italia vanta sì dei protagonisti, Eni ed Enel su tutti, ma con filiere che si perdono nell’Estremo Oriente, non solo per quanto riguarda l’approvvigionamento delle materie prime (le ormai celebri terre rare), ma soprattutto per la loro lavorazione e trasformazione, con il rischio quindi di destinare risorse pubbliche, anzi europee, al finanziamento di produzioni estere.

Di più, il vantaggio competitivo per le imprese derivante dall’efficientamento energetico potrebbe risultare decisamente minore rispetto ad altri impieghi, ma in ogni caso si tratta di un dibattito ancora molto acceso e divisivo, nonostante le netta presa di posizione della Commissione e del Parlamento europei, almeno in questo mandato.

di Federico Collavini