Ottobre 18, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Le cause del caro energia

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Se per fare una previsione metereologica accurata occorre conoscere le variabili atmosferiche, per comprendere l’odierna inflazione è necessario studiare attentamente l’attuale crisi energetica, poiché è da essa che deriva la forza e il vigore con il quale si sta progressivamente riducendo il potere d’acquisto di tutti ed indebolendo anche la ripresa economica. Tutti infatti, dai forni dei pizzaioli a quelli delle ceramiche, stanno oggi pagando il prezzo di politiche energetiche sbagliate e giochi di potere tra super potenze in perenne conflitto. Solo la crisi petrolifera del 1973 è paragonabile a quella attuale, con una sola eccezione, negli anni ’70 il petrolio c’era, mentre oggi il gas rischia persino di non esserci letteralmente più, lasciando l’Italia in balia di possibili blackout.

E le ragioni di tale crisi energetica sono almeno tre, come sottolinea Andrea Turco in un lungo articolo su Valigia Blu. La prima è di natura geopolitica e coinvolge il braccio di ferro tra la Nato e la Russia, tra quest’ultima e l’Europa ed ovviamente quello tra Biden e Putin. La seconda causa, invece, è dovuta a una maggiore richiesta di potenza da parte delle fabbriche del mondo ubicate in Asia, Cina e India in testa, che reclamano più energia, e più pulita, rispetto al carbone. La terza, infine, è dovuta all’approvvigionamento incerto a cui l’Europa e l’Italia sono soggette, costrette a reclamare l’energia di cui hanno bisogno da Paesi instabili, tra cui l’Algeria e la Libia. Elencate le cause, occorre ora partire dalla situazione in cui versa l’Europa, la quale produce da sola il 39% del proprio fabbisogno energetico ed è quindi costretta ad importare il restante 61% da partner altrove. Nello specifico, e come riportato da Alessandro Gili in un articolo pubblicato su ISPI, “Il mix energetico (dal quale l’Europa dipende) è composto da petrolio (36%), gas naturale (22%), energie rinnovabili (15%) e nucleare (13%). L’Europaimporta l’83,5% della domanda di gas naturale, mentre ne produce internamente solo lo 16,5%. Nello specifico, l’Unione è fortemente dipendente dalla Russia per quanto riguarda il gas naturale, con Mosca che rappresenta il 50% delle importazioni di gas.”. Se si considera poi che nell’ultimo trimestre del 2021 le forniture di gas russo sono diminuite del 25% (rispetto all’anno precedente), si può comprendere il legame che intercorre tra le questioni energetiche e quelle geopolitiche. La Russia, infatti, come scrive Gili, non solo possiede i gasdotti Nord Stream 1 (e il futuro 2), Yamal e Brotherood, ma anche Power of Siberia 1 e 2, con i quali rifornisce il mercato asiatico. Al momento i bacini di gas dai quali si approvvigiona l’UE sono differenti rispetto a quelli asiatici, ma il Power of Siberia 2, una volta concluso, attingerà allo stesso giacimento di Yamal e in futuro renderà la Russia sempre più indipendente dalla domanda energetica del Vecchio Continente, mentre quest’ultimo più succube delle mosse del Cremlino. Ed è quindi possibile che se già ora l’Europa è costretta a vedersi tagliare le quote del gas da parte della Russia per i ritardi relativi all’apertura di Nord Stream 2, bloccato dalla burocrazia europea (e dalle pressioni USA per la questione ucraina), sia poi assai probabile che in futuro tali contese possano protrarsi per più tempo ed essere più incisive; poiché il gas russo potrebbe essere dirottato altrove. Per questo, come scrive Gili, “La strategia EU Global Gateway, annunciata a dicembre 2021, giocherà un ruolo cruciale nel permettere una maggiore diversificazione delle forniture energetiche dell’Unione. I 300 miliardi di euro dedicati all’iniziativa sosterranno anche la trasformazione verde, per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) e gli impegni degli Accordi di Parigi. Il finanziamento di nuove interconnessioni, soprattutto con la costa sud del Mediterraneo, è cruciale per assicurare la diversificazione delle forniture energetiche e migliorare la disponibilità di energia rinnovabile in Europa.”.

Ma nel frattempo come si farà a contenere il caro bollette italiano?

Il Bel Paese soddisfa il 42% del proprio fabbisogno energetico ricorrendo al gas e di questa risorsa sono solo 4,5 mld i metri cubi di prodotti all’interno del confine italiano, mentre i restanti 72 mld provengono da altrove (per l’esattezza, il 43% dalla Russia). Per questa ragione l’attuale ministro del Mite, Cingolani, avrebbe suggerito di aumentare la produzione interna di metri cubi, investendo nei giacimenti presenti nell’Adriatico e in Sicilia, riducendo così la dipendenza dalle importazioni straniere. Ma anche in questo caso, come in quello dei 300 mld di euro previsti dall’EU, si tratta di interventi che non aiuterebbero a risolvere il problema del caro bollette che si registra oggi, ma svolgerebbero la funzione di argine per lo più sul medio/lungo periodo. Nel presente, infatti, e stando alle stime del Sole 24, dal primo gennaio del 2022 le bollette del gas sono aumentate del 41,8%, mentre quelle della luce del 55%, e si tratta di valori relativi solo al primo trimestre di quest’anno, mentre se si analizzano nel dettaglio i costi delle materie prime energetiche in rapporto all’anno appena passato, ecco che gli aumenti si fanno ancora più evidenti, nonché consistenti. Sul mercato (tra gennaio e dicembre 2021), il prezzo del gas naturale ha fatto registrare un balzo del +500 (passando da 21 a 120€/MWh), mentre la componente elettrica è aumentata del 400%, passando da 61 a 288 €/MWh. In entrambi i casi si tratta di cifre che hanno anche subito incrementi settimanali persino maggiori ed in parte tali balzi in avanti si sono verificati anche a causa al sistema di compensazione delle emissioni di CO2 deciso a livello comunitario.

L’Europa, infatti, dal 2005 in poi ha adottato uno strumento per contenere l’utilizzo di energia altamente inquinante, imponendo un sistema di vendita di quote in base alla CO2 prodotta. Il sistema in sé è molto semplice: ogni azienda possiede delle quote di CO2 e una volta che le termina ha due opzioni, la prima è pagare una sanzione, mentre la seconda è quella di acquistarne di nuove da un’azienda che non le ha esaurite tutte, e quindi continuare ad inquinare. Di per sé questo meccanismo possiede dei pregi, ma anche indubbi difetti, tra cui quello che chi ha a disposizione più soldi può continuare a inquinare quanto vuole pagando sempre di più, mentre là dove i denari sono pochi questo risulta più difficile. Ed in parte questa è una delle ragioni per le quali la Polonia, che deve al carbone il successo della propria emancipazione energetica, si lamenta dell’attuale sistema di quote europeo. Ed a conti fatti avrebbe più di una ragione per farlo, visto che al momento una buona quota del caro energia è dovuto proprio alla presenza di questo sistema. Come riportato da Alberto Clò, direttore della rivista Energia, sul sito Formiche.net “Il prezzo della CO2 nel mercato europeo (Emission trading scheme – Ets) è aumentato in un anno da 28 dollari a tonnellata a 65 dollari a ottobre per balzare verso gli 80 dollari. Inevitabile l’impatto sui prezzi al consumo sia del metano sia dell’elettricità.”. Per Frans Timmermans invece, vicepresidente della Commissione Europea (ed anche per noi), l’incremento dovuto al sistema dell’Ets incide solo per il 20% degli aumenti (che comunque non sono pochi). Tuttavia, il sistema delle quote di CO2 ha consentito di scansare il problema dell’adeguamento a fonti meno inquinanti, ed oggi impatta maggiormente su quelle economie che dipendono da esse.

Esiste poi un’altra anomalia, quella legata alla Borsa dell’energia elettrica, che determina effetti paradossali sui costi delle bollette. La Borsa dell’energia elettrica, come riportato da L’Espresso e dalla Valigia Blu, “è regolata da un sistema particolare (system marginal price) che fissa i prezzi sulla base delle quotazioni del gas. Se queste ultime si impennano, come è successo di recente, a guadagnare di più, molto di più, sono le centrali che usano fonti rinnovabili, dall’idroelettrico al fotovoltaico, perché hanno costi di gran lunga inferiori rispetto a quelli degli impianti a gas.”. All’apparenza sembra un paradosso, ma finché il costo del gas era stabile, quindi dal ’92 al 2007, e poi dal 2010 al 2019, non si era reso palese il controsenso, ma oggi è sotto gli occhi di tutti. Chi produce energia utilizzando fonti rinnovabili sta infatti registrando guadagni impressionanti, perché il prezzo di riferimento fissato dalla Borsa dell’energia elettrica è quello del gas e non tiene conto della fonte utilizzata per produrre energia, e questo si traduce in un vantaggio per tutti coloro che utilizzano idroelettrico, fotovoltaico, eolico, nucleare ecc.; e in Italia le fonti rinnovabili soddisfano il 43% della domanda elettrica nazionale.

Tradotto, allo stato attuale l’aumento del prezzo delle bollette rappresenta indubbiamente un costo per il fruitore di energia, mentre per chi quest’ultima la produce, soprattutto utilizzando fonti rinnovabili, tale aumento di prezzo finisce per essere un vantaggio; e tutto per via di leggi che non hanno prodotto gli esiti sperati, conflitti geopolitici e una repentina ripresa delle attività produttive post-pandemia. E di fronte agli attuali costi energetici le aziende più energivore, da quelle dell’industria pesante a quelle dei fertilizzati utilizzati in agricoltura, si ritrovano costrette a limitare la loro attività, se non a sospenderla del tutto. E se non fosse stato per l’intervento del governo Draghi, che con una spesa di 10,2 mld di euro ha ridotto gli effetti del caro bollette (1,2 mld€ luglio 2021, 3,5 a ottobre, 3,8 a dicembre e 1,7 oggi), oggi il salasso energetico sarebbe stato ben più alto e la crisi più nera; ma se il trend attuale degli aumenti dovesse protrarsi per più tempo, come prevedono tutti gli operatori del mercato, è evidente che si renderà necessario un ulteriore scostamento di bilancio, oppure si andrà incontro a un blocco di diverse attività produttive.

In questo scenario si rendono necessarie sia misure sul breve, che sul lungo periodo. Per le prime sarebbe sufficiente proporre una tassa sugli utili delle aziende energetiche, le quali (come dimostra il caso della Borsa dell’energia elettrica, ma non solo quello), stanno oggi registrano utili importanti a fronte di costi invariati. Si potrebbe obiettare che tali guadagni siano necessari ad affrontare la transizione energetica e che privare le aziende di tale cuscinetto possa rallentare il passaggio alle fonti rinnovabili, ma questo sarebbe vero solo in parte. Come dimostra Tom Wilson, in un lungo articolo pubblicato dal Financial Times, le più grandi compagnie legate al settore energetico, (BP, Chevron, Eni, ExxonMobil, Shell, TotalEnergies e ConocoPhillips) stanno ancora continuando ad investire nell’esplorazione di nuovi giacimenti da poter sfruttare. In parte perché il prezzo del greggio continua a salire, adesso è a quota 90$ al barile (come nel 2014), e poi perché è probabile che la domanda globale continui a crescere anche in futuro; l’Opec stima che nel 2040 si raggiungerà una produzione di 109 milioni di barili al giorno (il 10% in più rispetto ad oggi) e questo spinge ad investire ancora nell’oro nero. Certo, le esplorazioni sono diminuite, lo scorso anno sono state 798 a fronte delle 1.256 del 2019, ma i giacimenti trovati si trovano in parti del mondo non ancora esplorate (Namibia) ed Eni, come riporta Wilson, “lo scorso settembre ha scoperto 2 miliardi di barili di petrolio e almeno 1,8 trilioni di piedi cubi di gas associato al largo della Costa d’Avorio nel ritrovamento più significativo dell’anno, ed ha affermato che l’esplorazione è ancora necessaria per compensare il declino naturale dei giacimenti esistenti. aggiungendo che gli attuali prezzi elevati del petrolio e del gas sono “un chiaro esempio di ciò che accade quando l’offerta non può soddisfare la domanda”. Se le compensazioni delle fluttuazioni legate alla domanda energetica devono provenire da fonti fossili, allora è chiaro che gli obiettivi stabiliti a Glasgow non verranno rispettati e questo a prescindere dai profitti legati al surplus derivante dalla Borsa dell’energia elettrica. In breve, la logica per cui tassando meno le grandi compagnie energetiche queste dovrebbe favorire la transizione energetica non trova riscontro nella realtà dei fatti.

Un’altra soluzione, la quale potrebbe incidere maggiormente sul medio/lungo periodo, parrebbe quella di abbattere drasticamente uno dei settore più energivori, ovvero quello del riscaldamento domestico. Oltre il 40% del gas che viene importato in UE è utilizzato per riscaldare le case, rendendo quest’ultime più efficienti sarebbe possibile ridurre il consumo di combustibili fossili. E proprio per agevolare questo passaggio l’UE ha messo a disposizione quasi 1,8 trilioni di euro, che includono i 670 miliardi del Recovery Plan (di cui un terzo andrà speso in azioni contro il riscaldamento globale). Il problema è che se i soldi stanziati per rinnovare le abitazioni degli europei vengono gestiti com’è stato, ed è tuttora, in Italia con il Superbonus 110, è evidente che questa strategia vada a sbattere contro un muro. D’altronde, gli oltre 33 mld di euro stanziati dal governo italiano sono stati in parte dissipati negli istituti di credito, nella speculazione edilizia e per le case di proprietà della classe media, andando così incidere solo su qualche migliaio di abitazione, ovvero meno dell’1% degli immobili residenziali presenti in Italia. Di questo passo non basterebbe l’intero Pil della zona euro per rinnovare gli immobili del Vecchio Continente. Tuttavia, questa potrebbe essere una strada da percorrere, ma a patto che lo si faccia con ragionevolezza, utilizzando prezzi calmierati e non altri metodi.

A conti fatti, quella che si sta abbattendo oggi sul settore energetico è una tempesta perfetta, le cui cause, come in ogni previsione metereologica, debbono essere ricondotte ai singoli fattori, che una volta combinati tra di loro generano effetti imprevisti e distruttivi. Uscirne ora, rapidamente e senza riportare danni, è impossibile, ma le scelte che si prenderanno oggi determineranno la tempesta di domani, sino a prevenirne l’insorgenza, oppure accentuarne gli effetti.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini