Luglio 27, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Le sanzioni sul petrolio servono davvero?

La sfida tra democrazie ed autocrazie si gioca soprattutto sul terreno delle sanzioni commerciali, là dove l’Ue paga anni di delocalizzazione e l’assenza di una vera e propria strategia per l’autonomia energetica, come dimostra la sfida posta dall’embargo e dal price cap sul petrolio degli Urali. A distanza di una settimana dalla loro introduzione, entrambe le sanzioni energetiche contro la Russia (sia il blocco, sia il tetto al prezzo del greggio russo) si scontrano infatti con la realtà della burocrazia, le regole del mercato e l’imperativo di non restare a secco di carburante durante l’interno, proprio quando la domanda è più alta. Sorge così un interrogativo: qual è l’efficacia delle sanzioni contro il greggio russo e il loro tallone d’Achille?

Che cosa hanno deciso le democrazie occidentali?

Il 5 dicembre scorso i Paesi del G7 e l’Ue hanno posto sia l’embargo sul petrolio russo, sia un price cap sul prezzo al quale quest’ultimo può essere commercializzato verso altri Stati. Con l’embargo si impedisce alle navi russe di portare il loro carico di petrolio in Europa e nelle principali democrazie occidentali e successivamente si prevede di arrestare anche l’oleodotto Druzhba che ad oggi rifornisce l’Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. Una mossa che nei fatti imporrà una riorganizzazione delle diverse supply chain che smistano l’oro nero, il quale, se di origine russa, dovrà dirigersi altrove per poi magari essere raffinato, rimpacchettato con nuovo foglio di via per poi riapprodare proprio in quei Paesi che hanno posto l’embargo. In alternativa, la Russia dovrà occuparsi lei stessa della raffinazione e poi esportate il greggio così lavorato, una strategia che però ha i mesi contati, visto che dal 5 febbraio 2023 anche benzina e diesel russi saranno soggetti ad embargo.

Insieme a questa misura le democrazie occidentali hanno deciso di imporre un price cap, con tutte le eccezioni del caso dato che nessuno può impedire a un Paese terzo, come può essere il Brasile, l’India o la Cina, di acquistare petrolio russo. Pertanto la misura può essere così tradotta: se la Russia vuole commerciare il proprio petrolio sopra i 60$ al barile, questa è la soglia limite stabilita dall’accordo, le navi atte al suo trasporto non saranno assicurate dalle principali compagnie che ne tutelano il transito. Un po’ com’era stato anche con lo Swift utilizzato per bloccare le banche russe, anche in questo caso si è scelto di sfruttare a proprio vantaggio la forza dominante che le compagnie assicurative occidentali esercitano sul mercato del trasporto delle merci via mare. Ben il 90/95%% dei servizi assicurativi per questo genere di trasporti è infatti in mano ai Paesi del G7.

L’idea di quest’ultimi, e con essi dell’Ue, è quella di limitare gli introiti delle esportazione di materie prime russe che possono essere facilmente sostituibili con quelle di altri Paesi, ma in questo piano d’azione ci sono almeno tre falle che meritano attenzione.

I limiti dell’embargo e del price cap al petrolio russo.

La prima è che il mercato globale, per sua stessa natura, limita l’efficacia delle sanzioni, soprattutto quando esse investono materie prime importanti ed i Paesi che ne esportano in maggiori quantità. La Russia, infatti, è membro dell’Opec+, in quanto secondo esportatore al mondo per petrolio, con una quota pari all’8,3% di greggio a livello mondiale, dopo l’Arabia Saudita (16,5%), e seguita dal Canada (7,5%), dall’Iraq (7,3%), dagli Emirati Arabi Uniti (7,1%) e via discorrendo. Gli Usa, giusto per citare il Paese capofila del G7 (e non solo), grazie allo Shale oil riescono oggi ad aggiudicarsi un sesto posto a livello globale con una quota di esportazione pari al 4,2%, mentre la produzione nazionale è la prima al mondo (con il 17% e 706 milioni di tonnellate di greggio). Di fatto, pur essendo i primi produttori di greggio a livello mondiale (secondo quanto attesta lo IEA) gli Usa utilizzano la maggior parte di quanto estratto per sostentare la propria crescita e ciò attribuisce, di rimbalzo, maggior potere contrattuale agli altri Paesi esportatori. Com’è noto, infatti, la domanda e l’offerta di petrolio, sono perlopiù gestite dal cartello globale dell’Opec ed dell’Opec+, che all’occorrenza possono decidere di diminuire la produzione giornaliera per mantenere alto il prezzo. Ed in questo scenario la Russia ha gioco facile proprio in virtù del suo secondo posto nella classifica di Paese esportatore che le consente di reperire altri partner verso cui dirigere il propri prodotti petroliferi ed esercitare la propria forza al tavolo dei grandi produttori di greggio. Come arginare un potere simile? L’idea è quella del price cap legato alle assicurazioni marittime, ma il problema è di chi controlla quest’ultime.

La controffensiva russa al price cap e all’embargo: il ruolo delle democrature

Subito dopo l’avvio dell’invasione dell’Ucraina, e le successive contestazioni da parte delle democrazie occidentali, la Russia ha intensificato le proprie esportazioni verso Paesi terzi. Come riportato dal Sole24Ore “mentre rispetto all’anno precedente le esportazioni russe verso la UE calavano di 1,5 milioni di barili al giorno, ancor prima dell’embargo, quelle verso la Cina aumentavano di 225.000 barili al giorno, per un totale di 1,9 milioni; l’India acquistava 965.000 barili in più, per 1,1 milioni totali; la Turchia cresceva di 320.000 barili a 540.000”. Il caso di maggior rilievo è sicuramente quello dell’India, che è passata ad acquisti ingenti di oro nero grazie allo sconto praticato dalla Russia.

La domanda di petrolio nel mondo (Mt: milioni di tonnellate)

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IEA: “key World Energy Statistics 2021” – Crude oil net importers: pp.13

Se oggi il Brent, indicatore del prezzo del petrolio estratto nel Nord Europa, supera tranquillamente i 75$ al barile, (oggi 80,69$) quello russo, invece, viene svenduto sul mercato asiatico con uno sconto che oscilla tra i 25/35$ al barile (come riportato dall’ISPI). E a questo prezzo i margini di guadagno russo restano comunque elevati: circa 600.000$ al giorno (nonostante il price cap). Emerge così con forza il limite dei 60$ decisi dalle democrazie occidentali: un prezzo troppo alto e assai vicino a quello a cui viene già oggi commercializzato il greggio russo, come criticato dallo stesso Zelensky.

Rimane poi aperta la questione del chi controlla cosa e come si può arginare un bene che viaggia sul mare (terza falla). Già perché mentre l’Ue e il G7 decidevano il da farsi, Putin ha dato mandato per costruire un’imponente flotta fantasma (come rivelato dal Financial Times) che ad oggi conta già più di 100 petroliere acquistate da armatori anonimi. Si tratta di navi a fine carriera, quindi con età compresa tra i 12 e i 15 anni, di grande stazza, capaci di trasportare anche 700.000 barili di greggio l’una. Ci sarebbe sempre il limite dell’assicurazione marittima, ma anche qui ci sono già almeno un paio di ostacoli che ne rendono difficile l’applicazione. Come riportato da Massimo Nicolazzi su ISPI, “Un trasportatore e/o un assicuratore non hanno di regola né il diritto né l’obbligo di conoscere il prezzo effettivo cui il carico per cui prestano servizio è venduto. Qui soccorre l’OFAC, con le sue linee guida del 22 novembre scorso. Le linee guida definiscono shippers e assicuratori come Tier 3 Actors e prevedono che “Tier 3 Actors must obtain and retain customer attestations, in which the customer commits that for the service being provided, the Russian oil was purchased or will be purchased at or below the relevant price cap”. Insomma, siamo all’autocertificazione, fate voi quanto affidabile ed efficace”. Per di più già oggi la Turchia, grande sponsor della pace tra Ucraina e Russia, nonché importatrice del greggio di quest’ultima, sta fermando le petroliere europee che transitano dal Bosforo e non quelle del Cremlino (come riportato da Futura d’Aprile su Domani). E come se tutto ciò non inficiasse già abbastanza il piano delle democrazie, il Financial Times ha poi riportato l’indagine svolta dall’Ong Global Fishing Watch la quale sostiene come le navi cisterna russe stiano attuando le stesse manovre di occultamento già impiegate da Venezuela ed Iran tramite una falsificazione dei dati del trasponder di bordo. A ciò si aggiunge la già rodata pratica di transhipment effettuati a largo e che permetto di far passare il greggio da una petroliera ad un’altra, rendendo pressoché impossibile scovarne l’origine. In realtà, come racconta lo stesso Nicolazzi su ISPI, dalla composizione del greggio si può intuire quale sia il Paese d’origine, ma anche qui occorrerebbe prima di tutto la volontà e i mezzi per fare analisi e imporre le sanzioni così come decise dalle democrazie occidentali.

Qual è l’effetto dell’embargo e del price cap sul petrolio russo?

Purtroppo non basta dire gatto per averlo messo nel sacco. Le sanzioni sul petrolio russo non stanno avendo l’effetto sperato e con il superamento delle misure draconiane imposte da Xi in materia di sanità pubblica è facile che peggiorino pure. Come raccontato da Alberto Ciò sul Foglio “Se la domanda si manterrà sostenuta e la Cina uscirà dal suo pesante lockdown sarà inevitabile un rialzo dei prezzi. Parimenti difficile potrebbe essere per l’Europa trovare fornitori alternativi al greggio russo, specie se l’Opec confermerà il taglio della sua produzione complessiva, e ancor più da febbraio ai prodotti petroliferi. Morale: la sensibile riduzione degli acquisti europei di petrolio russo già avvenuta nel corso dell’anno e la fissazione di elevati sconti da parte di Mosca ad acquirenti non europei a livelli prossimi al tetto di 60 doll/bbl non dovrebbero comportare pesanti contraccolpi per le finanze russe, così disattendendo gli obiettivi che i paesi europei miravano a conseguire”.

All’Ue non resta che prepararsi a tirare le somme anche in vista del taglio dei prodotti raffinati previsto per febbraio, che rischia di bloccare la logistica del Vecchio Continente (visto che il diesel lo si importa perlopiù dalla Russia). La prima considerazione è che senza una vera cooperazione tra Paesi amici è difficile riuscire a imporre sanzioni efficaci in un mercato globalizzato. Il petrolio interessa a tutti e l’Ue non è l’unico acquirente di facile approvvigionamento, a differenza di quanto riguarda il gas. La seconda considerazione riguarda proprio il price cap su quest’ultimo: difficile, se non impossibile, staccarsi dal gas russo a meno di non ridurre drasticamente dal domanda, cosa che ad oggi non sembra essere in agenda (almeno in Italia). Terzo, ed ultimo, lo scontro tra Occidente e autocrazie poteva essere un’occasione per rendersi indipendenti dal punto di vista energetico, magari grazie a un piano europeo finanziato col debito comune, invece ognuno è andato per la sua strada: c’è chi ha nazionalizzato, chi imposto un price cap locale e chi immesso 200 miliardi a sussidio della propria manifattura e dei cittadini. Il rischio di queste strategie a breve, se non brevissimo raggio d’azione, è che amplifichino solo il divario tra i Paesi membri dell’Ue e il risentimento che gli euroscettici nutrono nei confronto dell’Unione. L’esatto opposto di quanto si auspicava chi ha introdotto le sanzioni.

di Claudio Dolci