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Nonostante la pandemia, e le promesse dei governi che l’hanno gestita, la sanità italiana resta universale solo sulla carta, lasciando di fatto scoperto uno dei pilastri del welfare state, al quale purtroppo neppure il Pnrr pare ora in grado di fornire un adeguato rinforzo.
LE RISORSE DEL PNRR DESTINATE ALLA SANITÀ
Numeri alla mano, il Pnrr varato dall’attuale governo ha stanziato 15,63 mld di euro alla sanità, (ovvero, alla sesta missione del piano italiano), declinati in due differenti rami: 8,63 mld a Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale (SSN) e 7 mld alle Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale. Al di là delle etichette, l’idea di fondo è quella di delocalizzare l’assistenza medica sul territorio, così da non gravare più un sistema, quello ospedale-centrico, rivelatosi non più funzionale né in caso di emergenza, né di fronte a una popolazione sempre più anziana e affetta da più patologie croniche. In Italia, nel 2019, si stimavano circa 10 milioni di persone, sopra i 15 anni, affette da comorbilità, ovvero con almeno 3 patologie croniche. Di conseguenza, l’idea di realizzare 1.350 case della comunità, 400 ospedali di comunità e 600 centrali operative territoriali per gestire chi di fatto non necessita di essere ricoverato in un ospedale classico, trova una sua sensatezza. Fin qui tutte misure di buon senso, ma che si scontrano con la realtà storica della sanità italiana.
LO STATO DI SALUTE DELLA SANITÀ ITALIANA
Nel nostro Paese il Covid-19 ha ucciso 161.000 persone (siamo primi in Europa, se si esclude il Regno Unito) e stando a quanto riportato da Francesco Zambon, in un’intervista al quotidiano La Verità, i morti reali sarebbero molti di più. Un articolo uscito sulla rivista Lancet, suggerisce infatti come a livello mondiale siano morte 18 milioni di persone, rispetto ai 6 mln conteggiati sinora, di conseguenza “per il biennio in questione (2020-2021) – dichiara Zambon – i morti non sarebbero 137.000, ma 259.000. Abbiamo ampiamente sottostimato il loro numero”. E uno dei fattori che ha determinato questo esito è forse da ricercarsi nei tagli che per anni hanno colpito la sanità pubblica.
Tra il 2010 e il 2018, in Italia, sono venuti a mancare 33.000 posti letto (da 244.000 a 211.000) e con essi il personale ospedaliero necessario a farli funzionare. Secondo le elaborazioni della fondazione Gimbe, inoltre, nella stessa decade sarebbero venuti meno 37 mld di euro di investimenti per la sanità pubblica. Ed addentrandosi ulteriormente nella matassa è facile capire come in realtà le responsabilità coprano un arco temporale ben più ampio, di almeno 20 anni, coinvolgendo più o meno ogni partito, a prescindere dal colore e dalle promesse fatte in campagna elettorale. Marco Ravelli infatti, sul settimanale TPI, ha analizzato nel dettaglio l’ultimo ventennio politico, attribuendo ben 33 mld di tagli al secondo governo Berlusconi, altri 30 mld (ancora in divenire) all’esecutivo guidato da Monti e infine 9,3 a quello di Renzi. “Il risultato – scrive Ravelli – è che quando è iniziata la pandemia non mancavano solo i posti letto, ma anche 56.000 medici e 50.000 infermieri: in Italia ci sono 5,6 infermieri ogni 1.000 abitanti mentre in Francia il rapporto è di 10,5 e in Germania di 12,6”.
Il rapporto tra forze ed esiti non è sempre lineare e Paesi con più personale e strutture sanitarie rispetto all’Italia non hanno comunque fronteggiato la pandemia con risultati molto differenti da quelli nostrani. Tuttavia, è indubbio il fatto che alcune strutture abbiano dovuto scegliere a priori chi assistere e chi no sulla base della disponibilità di un posto letto in ospedale e questo non sarebbe dovuto succedere, soprattutto in un Paese dove la sanità dovrebbe essere un servizio universale. Ed oggi il problema è che l’investimento del Pnrr rischia di non sanare affatto le attuali lacune e di lasciare inoltre ai posteri tanti edifici privi di alcuna utilità.
LE CRITICITÀ DEL PNRR IN TEMA DI SALUTE
A lanciare l’allarme è Openpolis, che nella sezione del sito dedicata al Pnrr, sottolinea come “per far funzionare questo sistema tuttavia serviranno nuovi medici, infermieri, personale tecnico-amministrativo eccetera. Ne consegue quindi che senza un incremento strutturale della spesa pubblica nel settore sanitario queste strutture rischiano di rimanere delle scatole vuote”. In altre parole, non basta costruire una struttura, sia essa informatica oppure fisica, affinché la si possa usare al meglio, perché senza un personale qualificato ogni investimento rischia di rivelarsi un buco nell’acqua o, peggio ancora (come in questo caso), di esser lasciato addirittura come zavorra alle future generazioni. Oltre alla beffa anche il danno.
Le Regioni, dal canto loro, hanno già capito che senza un aumento considerevole della spesa pubblica in ambito sanitario è inutile procedere con la costruzione di nuove strutture e infatti la Campania di De Luca ha detto di no nella Conferenza Stato-Regioni. D’altronde, è Giovanni Fattore stesso, su LaVoce.info, a evidenziare una criticità nell’agire del governo: “la programmazione prevista per gli interventi strutturali, quelli finanziabili con i fondi del Pnrr, non tiene conto delle implicazioni sulla spesa corrente”. Tradotto, i soldi che l’Ue ha destinato all’Italia, e agli altri Paesi, non possono essere spesi per assumere del personale (ma per formarlo invece sì), anche perché in caso contrario verrebbe meno l’intento del piano europeo stesso: creare una serie di riforme per rilanciare la futura generazione di europei. C’è da sottolineare però, come solo la Campania si sia opposta, lasciando così intendere che chi negli anni ha accantonato risorse ora può permettersi di spenderle meglio e che di fatto esiste un divario tra le diverse Regioni d’Italia.
Tirata una riga e sommati i problemi con le soluzioni è evidente che i soldi del Pnrr destinati alla sanità siano sulla buona strada per arginare una deriva, ma assai lontani delle esigenze del Paese. Solo analizzando i dati degli ultimi 10 anni, a fronte di un taglio di 37 mld ne vengono impiegati 15,63 mld, ampiamente insufficienti per recuperare le depauperazioni portate avanti da più governi. Vi sono poi dei problemi legati a una disparità del servizio sanitario regionale (come dimostra la protesta Campana) e che il Pnrr cerca di sì di bilanciare (destinando il 40% delle risorse al Sud), ma che al tempo stesso sembrano invece destinate a riaffermarsi con ancor più forza. La sanità Calabrese, ad esempio, è tuttora sotto commissariamento e i conti dell’attuale gestione e di quella passata, prima ancora dei soldi del Pnrr, sono ancora in fase di calcolo: data di elaborazione prevista, entro il 31 dicembre 2022.
Il rischio ad oggi è quindi che il Pnrr sanitario finisca per acuire, invece di stemperare, le differenze tra Nord e Sud del Paese, rendendo così vana sia l’idea di una riforma per le future generazioni, sia la costruzione di una sanità davvero universale lungo tutto lo stivale.
di Claudio Dolci e Roberto Biondini
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