In meno di 30 anni sono già stati tre i governi tecnici che hanno dovuto gestire l’enorme debito pubblico italiano, che dagli anni ’80 in poi accompagna ogni esecutivo e ne condiziona le scelte. E tutte le volte che è stato istituito un governo tecnico, a guidarlo c’era sempre un’economista, prima Ciampi (’93), poi Monti (2011) e ora Draghi (2021), e c’è addirittura chi oggi ipotizza in futuro un ritorno di Tremonti a Palazzo Chigi e di Cottarelli in Regione Lombardia. Ma perché la politica italiana si lascia commissariare dall’economia e quali sono gli effetti dell’alternanza tra governi tecnici e partitici?
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Ogni società occulta dentro sé stessa un frammento del proprio passato mistico, sia esso un rituale, un inno o più semplicemente un riferimento a un’entità superiore alla quale affidare le proprie preghiere, speranze e paure nei momenti più bui. Per i britannici molto di tutto ciò è racchiuso nel noto God save the Queen, mentre in Italia quando cresce il timore per il baratro ci si affida sempre di più agli economisti. L’Italia, ad esempio, coltiva pressoché da sempre, e per ragioni storiche, il mito del salvatore a cui consegnare le sorti del proprio destino, ed ovviamente ogni responsabilità: sia in caso di successo, sia di insuccesso. D’altronde, essendo stato il Belpaese zona di dominazione straniera per lungo tempo, la conseguente alienazione dal sentimento di Stato si è spesso tradotta col disinteresse verso il consolidamento del Bene Comune, visto più come bene di qualcun altro che proprio. Da questo incastro storico è così nato un genuino rimbalzo delle responsabilità verso l’esterno, una burocrazia macchinosa e quindi una delegittimazione degli organi preposti a dirigere lo Stato.
Questa cultura del “rimbalzo” non è quindi estranea alla politica italiana e troppo spesso si sono infatti materializzate delle situazioni socio-economiche talmente gravi da imporre il richiamo ad un vero e proprio “deus ex machina”, quale simbolo di speranza e allo stesso tempo oggetto di accollamento di ogni forma di responsabilità. In particolare, quando nel recente passato è cresciuto il timore per il baratro economico e/o sociale ci si è affidati sempre più spesso agli economisti. Sono loro, a conti fatti, a rappresentare l’incarnazione tutta italiana della provvidenza, le perenni riserve dello Stato a cui attingere nei momenti del bisogno, sempre pronti a risolvere i problemi di una classe politica che negli ultimi trent’anni non è stata capace di essere autonoma. Questa anomalia ha radici profonde che trovano la loro origine nel ’93 con l’ex banchiere Ciampi, poi Monti e ora Draghi, con l’auspicio che nel futuro figure come quella di Tremonti e di Cottarelli possano continuare sulla loro scia: uno come Presidente del Consiglio e l’altro come governatore della Regione Lombardia. Insomma, ovunque si volga lo sguardo, che sia destra, sinistra o centro, la figura degli economisti prende sempre più la forma del “salvatore”, con il commissariamento a tempo indeterminato dei politici di professione. Ma come mai si è innescato questo meccanismo di debordamento del sistema economico a danno di quello politico e quali possono essere gli effetti?
In primis, a segnare la svolta è stato l’avvento della società per specializzazione e quindi l’aumento del ricorso alla tecnocrazia come forma di governo preferenziale. Ciò significa che non vi possa essere ministro migliore di colui che per primo conosce la materia; ne consegue che all’istruzione e Università sia nominato un docente, alla sanità un medico e all’economia un’economista. D’altronde, chi se non un cultore della materia può gestire al meglio un ministero ad essa dedicata? Questo ragionamento fila per un po’, per poi inciampare rovinosamente su sé stesso, perché proprio secondo tale imperativo dovrebbe essere un politico di professione a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio e non un economista in senso stretto, men che meno se banchiere. Ed è proprio qui che emerge il dubbio: è corretto il ricorso ossessivo agli economisti?
Dagli anni ’80 in poi il debito pubblico del nostro Paese ha letteralmente preso il decollo e senza che vi fossero ragioni esterne tali da giustificare uno scostamento così elevato rispetto alla media UE. Ed è stato proprio questo ricorso smodato ai soldi dei contribuenti, necessario per tappare i buchi di bilancio ed elargire regalie di ogni sorta di categoria e capaci di aggregare attorno a sé dei voti, ad aprire la via agli economisti prestati alla politica. Questi ultimi, una volta eletti a deus ex machina, sono poi saliti al Colle ed hanno costruito maggioranze, sempre molto ampie, per cercare di aggiustare solo e sempre una cosa: i conti pubblici. Di fatto l’economista che guida il governo non viene chiamato a fare politica, ma solo a risolvere un problema per poi dissolversi nel nulla delle urne e magari ricevendo (molti) insulti su come si fa quel mestiere.
Nel’93 Ciampi prese le redini di un Paese in preda a crisi di natura sia partitiche (Tangentopoli e la crisi dei partiti avevano dilaniato la fiducia dell’elettorato), sia economiche. Infatti, l’Italia era lontana dagli obiettivi fissati dal Trattato di Maastricht che lei stessa aveva firmato ed erano ancora presenti grossi colossi statali nati col dopo guerra (l’Iri su tutti). Ed una volta chiusasi la parentesi Ciampiana la politica riprese il suo corso come se nulla fosse mai accaduto, fino a quando, nel 2011, il differenziale tra BTp e Bund non superò i 500 punti base e l’Italexit non era più così impensabile. Subentrò quindi l’esecutivo guidato da Mario Monti, che rinforzò sì i fondamentali economici italiani, ma con misure lacrime e sangue, per poi lasciare il testimone a Letta e successivamente a Renzi. Passarono altri governi, ed ecco ritornare alla guida del Paese un’economista, Mario Draghi, anche lui chiamato per traghettare l’Italia fuori dalla crisi sanitaria e partitica, nonché economica ed ambientale. Le analogie che accompagnano tutti questi governi tecnici sono quasi sempre state le stesse: crisi partitica ed economica insieme, ma è l’ordine tra questi due fattori ad essere fondamentale. È la crisi economica a determinare quella politica o viceversa? E qual è, ammesso che eista, il nesso causale tra le due?
Di fatto la parabola dell’economista che risolve i problemi è una costante della cultura politica italiana. Interessante sarà quindi analizzare due differenti fenomeni: da un lato, come questi governi tecnici si formino, agiscano e vengano successivamente rivalutati dalla società stessa che li aveva formati, dall’altro come l’eredità di questi tecnici venga spesa dai governi successivi, perlopiù di natura strettamente politica.
Nasce così una rubrica che vuole fare un po’ più di luce su questa dinamica squisitamente in salsa italiana, con un’intenzione critica e d’inchiesta.
Roberto Biondini e Claudio Dolci
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