Luglio 22, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

I mali del capitalismo e della dottrina di Milton Friedman

Esistono teorie economiche non solo capaci di persistere ben più a lungo dell’esistenza stessa del loro fautore, ma persino di riuscire a esercitare un’influenza così persuasiva da plasmare intere generazioni di imprenditori. Milton Friedman, ad esempio, ha convinto il mondo intero che l’unica preoccupazione a cui debbano rispondere le imprese sia il tornaconto degli stakeholders che su di esse hanno investito i propri capitali. Ed oggi, a distanza di oltre 50 anni dalla nascita della sua dottrina, gli effetti del modello capitalista di Friedman sono ancora vivi e vegeti, come ben esemplificato dagli Uber files, dagli scioperi delle compagnie low cost e dall’ingerenza delle industrie del fossile sulla stampa libera.

In campo economico esiste sempre almeno una teoria e quindi una soluzione per ogni genere di problema, anzi, spesso gli economisti riescono persino a generare più di opzioni, anche tra di loro confliggenti, per lo stesso tema, sia esso l’inflazione o l’occupazione. Lo stesso Keynes divenne famoso proprio per la sua capacità di formulare ipotesi capaci di spaziare in più direzioni, sino a diventare tra di loro divergenti. Tuttavia, e a dispetto della malleabilità dell’economia e della creatività dei suoi cultori, sembra non esserci cura capace di estirpare la dottrina partorita di Milton Friedman, secondo cui la responsabilità sociale di un’impresa si esaurisce nell’aumentare i soli profitti, il resto non conta. Tant’è che se per raggiungere tale obiettivo, ovvero rendere ricchi sé stessi e gli azionisti, fosse necessario bruciare il mondo o disgregare il tessuto di una società, andrebbe comunque bene e anzi, sarebbe un dovere morale farlo, pena il mancato rispetto degli interessi degli stakeholders; ovviamente gli unici ad avene di legittimi.

La dottrina di Friedman nacque negli anni ’70 e da allora guida tanto la penna che verga la storia quanto l’agire degli amministratori delegati di importanti società per azioni. Non sono stati sufficienti né i numerosi scandali privati, né le bolle speculative o il crescete del divario salariale all’interno delle grandi società: nulla scalfisce questa massima e gli interessi che essa difende. Neppure lo scandalo di Uber, in cui sono coinvolti politici di primo piano e le maggiori autorità europee, smuove l’opinione pubblica, la quale non pare non curarsi neppure del rapporto immorale tra media e industria fossile, né degli scioperi che affliggono il mondo dell’aviazione low cost. E dire che tutti questi tre casi mostrano, nel loro insieme, proprio la perversione raggiunta dalle idee di Friedman e i rischi che la società corre nel perseguire una dottrina tanto scellerata quanto refrattaria al cambiamento.

Il caso di Uber

La storia di Uber inizia come quella di ogni altra star-up che ambisce a cambiare il mondo. Viene analizzato un mercato ritenuto improduttivo, troppo ancorato allo status quo e meritevole di un salto di quel salto di qualità che solo una grande intuizione scaturita dalla riflessione di una personalità geniale può apportare e la magia californiana fa tutto il resto. Nel caso di Uber si è quindi scelto di penetrare in un mercato, quello europeo, dove il sevizio di trasporto pubblico è normato attraverso la cessione di licenze, bypassando però ogni regola e facendo un’attività di lobbying senza quartiere, così come una feroce lotta  a qualunque corporazione e regola. D’altronde, se vuoi cambiare il mondo e le sue regole non vi è limite che non si possa valicare, o questo è quello che devono aver pensato in California prima di avviare la macchina che l’inchiesta del The Guardian ha rivelato.

Ben 124.000 documenti e nomi di primissimo piano, come quello di Emmanuel Macron, Joe Biden, Matteo Renzi e Neelie Kroes. Quest’ultimo ai più potrà non dire molto, ma si tratta dell’ex commissaria europea alla concorrenza (il ruolo oggi ricoperto da Margherita Vestager), la quale, stando a quanto riportato dai file e dall’articolo di Francesca Canto, pubblicato su TPI, “si sarebbe offerta di organizzare una serie di incontri tra Uber, i ministri olandesi e gli alti funzionari Ue tra il 2014 e il novembre 2016 – contrariamente a quanto richiesto dalla normativa vigente – per un totale di 200 mila dollari all’anno, versati sul suo conto dall’azienda di San Francisco.” Non proprio l’atteggiamento di trasparenza che ci si aspetterebbe da un funzionario Ue, ma in questo Kroes non era di certo da sola, anzi, il pubblico di politici pronti a rivendicare come legittime le battaglie di Uber era assai folto, nonostante la compagnia californiana fosse dedita a pratiche del tutto scorrette. Nell’articolo di Canto si legge “secondo gli Uber files, alcuni membri dell’azienda avevano visto nella violenza i propri autisti un’opportunità, un modo per fare pressione sui governi dei Paesi europei al fine di riscrivere leggi che ostacolavano l’espansione di Uber nel vecchio continente. Alcune manifestazioni furono pianificate direttamente dalla società.” Per il co-fondatore di Uber, Travis Kalanick “la violenza garantisce il successo.” Una frase questa, che risulta assolutamente in linea con la dottrina di Friedman e con l’epilogo di questa triste pagina del capitalismo d’oggi. Già, perché all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta del The Guardian, la risposta di Uber è stata che sì, sono stati commessi degli errori, ma dal 2017 l’Ad è stato rimosso e quindi il problema rientrato.

Un modo per dire “quello era il passato, oggi siamo diversi”. Che negli anni siano stati calpestati dei diritti, letteralmente comprati degli incontri con alti funzionari politici o assoldati black bloc per gettare discredito su intere categorie di lavori non conta, perché frutto avvelenato del passato. Ed a guardar bene i conti della società californiana si direbbe che sia proprio così, perché grazie a queste politiche commerciali è riuscita a far breccia in 77 Paesi del mondo a generare un fatturato di ben 6,9 mld di dollari, facendo così felici azionisti e manager: esiste altro per cui valga la pena lottare?

Una transizione all’insegna del greenwashing

È poi sufficiente svoltare pagina ed ecco che la dottrina di Friedman ricompare come per magia, conquistando un altro adepto del capitalismo amorale, anzi, in questo caso a lasciarsi sedurre dai profitti è persino l’intera eurozona, che non riesce proprio a dire di no ai combustibili fossili, nonostante le evidenze scientifiche e i danni (questa volta geopolitici) che da anni accompagnano le guerre in Medio Oriente ed oggi alle porte dell’Europa stessa. Niente, nulla è più forte dello status quo e del profitto.

Con 328 voti l’Europarlamento ha deciso che la tassonomia Ue non cambia, gas e nucleare sono green e utili alla transizione energetica. D’altronde, nei soli 6 anni successivi all’accordo di Parigi, sono stati ben 4,6 i trilioni di dollari investiti dalle banche di tutto il mondo nel settore fossile: che fai? Vendi tutto e cambi strategia perché qualche scienziato sostiene che estraendo gas, carbone e petrolio finirà l’era dell’uomo? No. Persino gli Esg contengono al loro interno forme di finanziamento a sostegno dell’industria fossile e a dirlo non è Topolino, ma l’Economist.

Eppure, nonostante i dati degli scienziati, i cambiamenti climatici tuttora in corso e l’azzardo morale che la Russia ha potuto giocare nei confronti dell’Ue, le energie fossili vincono su tutto e si prendono pure una rivincita simbolica attraverso i Media. Non vi sono, infatti, solo i giornali che sostengono apertamente teorie negazioniste e ritenute minoritarie in ambito scientifico, ma i Media stessi, nel loro insieme, devono parte della loro stessa sussistenza alla pubblicità che proviene dall’industria fossile. Da uno studio, realizzato Greenpeace Italia e l’Osservatorio di Pavia – rilanciato poi dal sito Valori.it – si evince come i principali Media italiani ricevano fondi dall’industria fossile e finiscano spesso per sottovalutare l’impatto di tale settore. Nell’articolo, infatti, si legge come “nei 528 articoli esaminati, le compagnie petrolifere sono indicate tra i responsabili della crisi climatica appena due volte”.Ed ancora Grazie alle loro generose pubblicità, che spesso non sono altro che ingannevole greenwashing – aggiunge Giancarlo Sturloni, di Greenpeace Italia – le aziende del gas e del petrolio inquinano anche il dibattito pubblico e il sistema dell’informazione. Impedendo a lettori e lettrici di conoscere la gravità dell’emergenza ambientale che stiamo vivendo. Se vogliamo che il giornalismo svolga il suo ruolo cruciale di watchdog nella lotta alla crisi climatica, anziché di megafono delle aziende inquinanti, dobbiamo liberare i media dal ricatto del gas e del petrolio.”

È forse chiedere troppo che vi sia indipendenza tra Media e industria del fossile? Secondo la vulgata dei promotori della dottrina di Friedman sì, perché ciò che conta è che i media sia sostenibili economicamente parlando e non che lo sia ciò che scrivono.

L’era dei viaggi low cost è al capolinea?

Ma che cosa significa sostenibile? Ecco, questo è un altro di quei concetti che muta a seconda degli interessi degli stakeholders, come ben esemplificato dal settore delle compagnie aree low cost. C’è stato un tempo in cui, grazie a compagnie come Ryanair, era possibile viaggiare con una manciata di euro, poi è arrivato il Covid-19, l’inflazione ed ora le legittime pretese di un settore che negli anni ha visto assottigliarsi sempre di più i propri diritti ed oggi sciopera per difendere ciò che ne resta. Voli cancellati ed altre forme di disagio per i viaggiatori stanno diventando sempre più frequenti, perché di fatto protestare è l’ultima carta che resta da giocare a un settore, quello dell’aerotrasporto, ormai ridotto all’osso.

Durante la pandemia sono stati licenziati molti dipendenti ed a emergenza conclusa, col sopraggiungere di ulteriori incertezze economiche e geopolitiche, non sono stati reintegrati lasciando una mole di lavoro di espansione sui pochi rimasti. L’intero settore dei viaggi low cost è diventato talmente insostenibile che persino chi è stato fautore del suo successo oggi nasconde la mano facendo finta che il sasso nello stagno sia stato gettato per errore (anche qui, le analogie col caso di Uber si sprecano). O’Leary stesso, infatti, patron di Ryanair, al Financial Times ha dichiarato “È semplicemente diventato troppo economico. Trovo assurdo che ogni volta che volo a Stansted (aeroporto di Londra dove fa base Ryanair, ndr), il viaggio in treno fino al centro di Londra sia più costoso del biglietto aereo.” E, come riportato dal The Post, O’Leary ha poi aggiunto: “È stato il mio lavoro [offrire viaggi aerei a buon mercato]. Ho fatto un sacco di soldi facendolo. Ma alla fine, non credo che nel medio termine i viaggi a un costo di 40 euro possano essere sostenibili. È un prezzo troppo economico», aggiungendo che in futuro le tariffe medie potrebbero salire a 50 o 60 euro circa.”

Il caso di Ryanair esemplifica una pratica presente anche nella vicenda di Uber ed in quella del settore dell’energia fossile, ovvero che è tutto lecito fino a quando genere un utile che sia ritenuto significativo per gli stakeholders. Se diventa essenziale garantire un servizio a un prezzo irrisorio, penetrare un mercato tutelato con manovre predatorie, oppure inficiare il giudizio del mondo accademico e di quello giornalistico, non importa. Ciò che conta è il rispetto della dottrina elaborata da Friedman negli anni ’70.

Ed oggi, a distanza di oltre mezzo secolo da quando l’economista statunitense gettò le basi per la condotta societaria, nulla sembra essere cambiato. Permane un esercito di vinti che affolla aziende dai bilanci stracolmi e destinati perlopiù a una manciata di eletti e ad azionisti interessati solo al proprio tornaconto personale. Possibile che nel 2022 debba continuare a regnare indiscussa una dottrina i cui effetti perversi accompagnano il capitalismo?

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

In campo economico esiste sempre almeno una teoria e quindi una soluzione per ogni genere di problema, anzi, spesso gli economisti riescono persino a generare più di opzioni, anche tra di loro confliggenti, per lo stesso tema, sia esso l’inflazione o l’occupazione. Lo stesso Keynes divenne famoso proprio per la sua capacità di formulare ipotesi capaci di spaziare in più direzioni, sino a diventare tra di loro divergenti. Tuttavia, e a dispetto della malleabilità dell’economia e della creatività dei suoi cultori, sembra non esserci cura capace di estirpare la dottrina partorita di Milton Friedman, secondo cui la responsabilità sociale di un’impresa si esaurisce nell’aumentare i soli profitti, il resto non conta. Tant’è che se per raggiungere tale obiettivo, ovvero rendere ricchi sé stessi e gli azionisti, fosse necessario bruciare il mondo o disgregare il tessuto di una società, andrebbe comunque bene e anzi, sarebbe un dovere morale farlo, pena il mancato rispetto degli interessi degli stakeholders; ovviamente gli unici ad avene di legittimi.

La dottrina di Friedman nacque negli anni ’70 e da allora guida tanto la penna che verga la storia quanto l’agire degli amministratori delegati di importanti società per azioni. Non sono stati sufficienti né i numerosi scandali privati, né le bolle speculative o il crescete del divario salariale all’interno delle grandi società: nulla scalfisce questa massima e gli interessi che essa difende. Neppure lo scandalo di Uber, in cui sono coinvolti politici di primo piano e le maggiori autorità europee, smuove l’opinione pubblica, la quale non pare non curarsi neppure del rapporto immorale tra media e industria fossile, né degli scioperi che affliggono il mondo dell’aviazione low cost. E dire che tutti questi tre casi mostrano, nel loro insieme, proprio la perversione raggiunta dalle idee di Friedman e i rischi che la società corre nel perseguire una dottrina tanto scellerata quanto refrattaria al cambiamento.

Il caso di Uber

La storia di Uber inizia come quella di ogni altra star-up che ambisce a cambiare il mondo. Viene analizzato un mercato ritenuto improduttivo, troppo ancorato allo status quo e meritevole di un salto di quel salto di qualità che solo una grande intuizione scaturita dalla riflessione di una personalità geniale può apportare e la magia californiana fa tutto il resto. Nel caso di Uber si è quindi scelto di penetrare in un mercato, quello europeo, dove il sevizio di trasporto pubblico è normato attraverso la cessione di licenze, bypassando però ogni regola e facendo un’attività di lobbying senza quartiere, così come una feroce lotta  a qualunque corporazione e regola. D’altronde, se vuoi cambiare il mondo e le sue regole non vi è limite che non si possa valicare, o questo è quello che devono aver pensato in California prima di avviare la macchina che l’inchiesta del The Guardian ha rivelato.

Ben 124.000 documenti e nomi di primissimo piano, come quello di Emmanuel Macron, Joe Biden, Matteo Renzi e Neelie Kroes. Quest’ultimo ai più potrà non dire molto, ma si tratta dell’ex commissaria europea alla concorrenza (il ruolo oggi ricoperto da Margherita Vestager), la quale, stando a quanto riportato dai file e dall’articolo di Francesca Canto, pubblicato su TPI, “si sarebbe offerta di organizzare una serie di incontri tra Uber, i ministri olandesi e gli alti funzionari Ue tra il 2014 e il novembre 2016 – contrariamente a quanto richiesto dalla normativa vigente – per un totale di 200 mila dollari all’anno, versati sul suo conto dall’azienda di San Francisco.” Non proprio l’atteggiamento di trasparenza che ci si aspetterebbe da un funzionario Ue, ma in questo Kroes non era di certo da sola, anzi, il pubblico di politici pronti a rivendicare come legittime le battaglie di Uber era assai folto, nonostante la compagnia californiana fosse dedita a pratiche del tutto scorrette. Nell’articolo di Canto si legge “secondo gli Uber files, alcuni membri dell’azienda avevano visto nella violenza i propri autisti un’opportunità, un modo per fare pressione sui governi dei Paesi europei al fine di riscrivere leggi che ostacolavano l’espansione di Uber nel vecchio continente. Alcune manifestazioni furono pianificate direttamente dalla società.” Per il co-fondatore di Uber, Travis Kalanick “la violenza garantisce il successo.” Una frase questa, che risulta assolutamente in linea con la dottrina di Friedman e con l’epilogo di questa triste pagina del capitalismo d’oggi. Già, perché all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta del The Guardian, la risposta di Uber è stata che sì, sono stati commessi degli errori, ma dal 2017 l’Ad è stato rimosso e quindi il problema rientrato.

Un modo per dire “quello era il passato, oggi siamo diversi”. Che negli anni siano stati calpestati dei diritti, letteralmente comprati degli incontri con alti funzionari politici o assoldati black bloc per gettare discredito su intere categorie di lavori non conta, perché frutto avvelenato del passato. Ed a guardar bene i conti della società californiana si direbbe che sia proprio così, perché grazie a queste politiche commerciali è riuscita a far breccia in 77 Paesi del mondo a generare un fatturato di ben 6,9 mld di dollari, facendo così felici azionisti e manager: esiste altro per cui valga la pena lottare?

Una transizione all’insegna del greenwashing

È poi sufficiente svoltare pagina ed ecco che la dottrina di Friedman ricompare come per magia, conquistando un altro adepto del capitalismo amorale, anzi, in questo caso a lasciarsi sedurre dai profitti è persino l’intera eurozona, che non riesce proprio a dire di no ai combustibili fossili, nonostante le evidenze scientifiche e i danni (questa volta geopolitici) che da anni accompagnano le guerre in Medio Oriente ed oggi alle porte dell’Europa stessa. Niente, nulla è più forte dello status quo e del profitto.

Con 328 voti l’Europarlamento ha deciso che la tassonomia Ue non cambia, gas e nucleare sono green e utili alla transizione energetica. D’altronde, nei soli 6 anni successivi all’accordo di Parigi, sono stati ben 4,6 i trilioni di dollari investiti dalle banche di tutto il mondo nel settore fossile: che fai? Vendi tutto e cambi strategia perché qualche scienziato sostiene che estraendo gas, carbone e petrolio finirà l’era dell’uomo? No. Persino gli Esg contengono al loro interno forme di finanziamento a sostegno dell’industria fossile e a dirlo non è Topolino, ma l’Economist.

Eppure, nonostante i dati degli scienziati, i cambiamenti climatici tuttora in corso e l’azzardo morale che la Russia ha potuto giocare nei confronti dell’Ue, le energie fossili vincono su tutto e si prendono pure una rivincita simbolica attraverso i Media. Non vi sono, infatti, solo i giornali che sostengono apertamente teorie negazioniste e ritenute minoritarie in ambito scientifico, ma i Media stessi, nel loro insieme, devono parte della loro stessa sussistenza alla pubblicità che proviene dall’industria fossile. Da uno studio, realizzato Greenpeace Italia e l’Osservatorio di Pavia – rilanciato poi dal sito Valori.it – si evince come i principali Media italiani ricevano fondi dall’industria fossile e finiscano spesso per sottovalutare l’impatto di tale settore. Nell’articolo, infatti, si legge come “nei 528 articoli esaminati, le compagnie petrolifere sono indicate tra i responsabili della crisi climatica appena due volte”.Ed ancora Grazie alle loro generose pubblicità, che spesso non sono altro che ingannevole greenwashing – aggiunge Giancarlo Sturloni, di Greenpeace Italia – le aziende del gas e del petrolio inquinano anche il dibattito pubblico e il sistema dell’informazione. Impedendo a lettori e lettrici di conoscere la gravità dell’emergenza ambientale che stiamo vivendo. Se vogliamo che il giornalismo svolga il suo ruolo cruciale di watchdog nella lotta alla crisi climatica, anziché di megafono delle aziende inquinanti, dobbiamo liberare i media dal ricatto del gas e del petrolio.”

È forse chiedere troppo che vi sia indipendenza tra Media e industria del fossile? Secondo la vulgata dei promotori della dottrina di Friedman sì, perché ciò che conta è che i media sia sostenibili economicamente parlando e non che lo sia ciò che scrivono.

L’era dei viaggi low cost è al capolinea?

Ma che cosa significa sostenibile? Ecco, questo è un altro di quei concetti che muta a seconda degli interessi degli stakeholders, come ben esemplificato dal settore delle compagnie aree low cost. C’è stato un tempo in cui, grazie a compagnie come Ryanair, era possibile viaggiare con una manciata di euro, poi è arrivato il Covid-19, l’inflazione ed ora le legittime pretese di un settore che negli anni ha visto assottigliarsi sempre di più i propri diritti ed oggi sciopera per difendere ciò che ne resta. Voli cancellati ed altre forme di disagio per i viaggiatori stanno diventando sempre più frequenti, perché di fatto protestare è l’ultima carta che resta da giocare a un settore, quello dell’aerotrasporto, ormai ridotto all’osso.

Durante la pandemia sono stati licenziati molti dipendenti ed a emergenza conclusa, col sopraggiungere di ulteriori incertezze economiche e geopolitiche, non sono stati reintegrati lasciando una mole di lavoro di espansione sui pochi rimasti. L’intero settore dei viaggi low cost è diventato talmente insostenibile che persino chi è stato fautore del suo successo oggi nasconde la mano facendo finta che il sasso nello stagno sia stato gettato per errore (anche qui, le analogie col caso di Uber si sprecano). O’Leary stesso, infatti, patron di Ryanair, al Financial Times ha dichiarato “È semplicemente diventato troppo economico. Trovo assurdo che ogni volta che volo a Stansted (aeroporto di Londra dove fa base Ryanair, ndr), il viaggio in treno fino al centro di Londra sia più costoso del biglietto aereo.” E, come riportato dal The Post, O’Leary ha poi aggiunto: “È stato il mio lavoro [offrire viaggi aerei a buon mercato]. Ho fatto un sacco di soldi facendolo. Ma alla fine, non credo che nel medio termine i viaggi a un costo di 40 euro possano essere sostenibili. È un prezzo troppo economico», aggiungendo che in futuro le tariffe medie potrebbero salire a 50 o 60 euro circa.”

Il caso di Ryanair esemplifica una pratica presente anche nella vicenda di Uber ed in quella del settore dell’energia fossile, ovvero che è tutto lecito fino a quando genere un utile che sia ritenuto significativo per gli stakeholders. Se diventa essenziale garantire un servizio a un prezzo irrisorio, penetrare un mercato tutelato con manovre predatorie, oppure inficiare il giudizio del mondo accademico e di quello giornalistico, non importa. Ciò che conta è il rispetto della dottrina elaborata da Friedman negli anni ’70.

Ed oggi, a distanza di oltre mezzo secolo da quando l’economista statunitense gettò le basi per la condotta societaria, nulla sembra essere cambiato. Permane un esercito di vinti che affolla aziende dai bilanci stracolmi e destinati perlopiù a una manciata di eletti e ad azionisti interessati solo al proprio tornaconto personale. Possibile che nel 2022 debba continuare a regnare indiscussa una dottrina i cui effetti perversi accompagnano il capitalismo?

di Claudio Dolci e Roberto Biondini