Luglio 27, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

L’economista in prestito, la Politica in debito – Il governo Monti

In meno di 30 anni sono già stati tre i governi tecnici che hanno dovuto gestire l’enorme debito pubblico italiano, che dagli anni ’80 in poi accompagna ogni esecutivo e ne condiziona le scelte. E tutte le volte che è stato istituito un governo tecnico, a guidarlo c’era sempre un’economista, prima Ciampi (’93), poi Monti (2011) e ora Draghi (2021), e c’è addirittura chi oggi ipotizza in futuro un ritorno di Tremonti a Palazzo Chigi e di Cottarelli in Regione Lombardia. Ma perché la politica italiana si lascia commissariare dall’economia e quali sono gli effetti dell’alternanza tra governi tecnici e partitici?

L’alternanza tra i governi politici e quelli tecnici è stata la vera protagonista della stagione della seconda repubblica italiana. Negli ultimi trent’anni, queste due categorie di esecutivi si sono rimpallati l’amministrazione dello stato centrale con buona pace degli amanti dei governi stabili. Infatti, nonostante una iniziale propensione al sistema elettorale maggioritario, dal 1992 ad oggi si sono succeduti ben 19 governi di tutti i tipi e di tutti i colori. Ed a puntellare, o sarebbe meglio dire soccorrere, questa lunga stagione politica si sono succeduti almeno quattro governi tecnici presieduti non da politici di professione ma da economisti di fama anche internazionale: Dini, Ciampi, Monti, Draghi. Personalità “prestati” alla politica per colpa della politica; un climax ascendente di personalità tanto desiderate e volute per risolvere i problemi di una classe dirigente incapace di guidare il timone della nazione senza andare a sbattere, quanto scaricate velocemente una volta concluso il lavoro sporco. Sarebbe semplicistico demonizzare completamente il perimetro attorno a questi governi tecnici, quanto, allo stesso modo, idolatrare senza riserva degli esecutivi anomali (forse non così tanto?) che hanno solcato il terreno della Storia politica recente. Ad ogni modo, un’analisi sul come i governi tecnici si siano inseriti nella gestione dell’affare pubblico ed un paragone sulla loro gestione rispetto a quella dei governi politici contemporanei, può essere interessante e certificare un approccio diverso alle sfide quotidiane della nazione. È chiaro che ogni esecutivo rappresenti un unicum, così come un fiocco di neve non si distingue da un altro, e che quindi le sfaccettature possano essere molteplici e di infinita riflessione, ma è comunque possibile tracciare una rotta affidandosi a una qualche stella polare, individuando dei target precisi da cui suggere per capire il comportamento del Tecnico rispetto a quello del Politico.

In un paese, come l’Italia, dove il debito pubblico è stato, ed è tutt’ora, il problema finanziario principale, dal quale a cascata ne discendono altri di valore economico, sociale e politico, un’analisi di come i governi tecnici si siano comportati, rispetto a quelli politici, nell’affrontare l’aumento del debito e del deficit è quindi, con le dovute cautele e approssimazioni, uno strumento adeguato per scoprire la visione del Politico e quella del Tecnico.

In questa prima ricerca, approfondiremo il caso del governo Monti, un esecutivo nato sulle ceneri dell’ultimo governo Berlusconi, quando il Belpaese era tecnicamente sull’orlo del baratro finanziario.

Il 16 novembre del 2011, l’ex rettore dell’università Bocconi di Milano venne nominato presidente del consiglio da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dal punto di vista politico, questo governo ebbe il sostegno parlamentare più largo della storia repubblicana: solo Lega e Italia dei Valori sedettero negli scranni dell’opposizione. Nella società civile l’arrivo di Monti venne segnalato come una manna dal cielo. I giornali, anche i più polarizzati, segnalarono una svolta nel modo di fare. Scriveva, per esempio, Pretini su Il fatto Quotidiano: Sul rigore difficile trovare passaggi a vuoto. Il governo ha impiegato una manciata di settimane per riformare le pensioni sulle quali nei diciotto anni precedenti sono caduti almeno un paio di governi.” Ma anche esponenti della Lega Nord stessa (all’epoca si chiamava ancora così) celebravano alcuni provvedimenti del governo Monti. Diceva, per esempio, Giorgetti nel 2011 in Parlamento: “Il pareggio di bilancio è funzionale, in una prospettiva di medio periodo valida per tutti i Paesi dell’euro, ad assicurare il rispetto dei parametri europei in termini di deficit e debito pubblico.” Insomma, parole d’oro nei confronti dell’esecutivo non scarseggiavano e anche presso chi avrebbe potuto semplicemente criticare e basta. Tuttavia, alla fine della legislatura (e pure negli anni a seguire) il governo Monti è stato ripetutamente demonizzato e additato come responsabile della crisi economica del biennio 2012-2013, oltre che per la Riforma Fornero, la Legge Severino ma soprattutto l’aumento delle imposte in un periodo di crisi economica, con risultati (secondo i detrattori) pessimi per il sistema Italia. Matteo Renzi, per esempio, diceva: “La cultura dell’austerity ha visto aumentare il numero di famiglie in povertà, un PIL negativo e crescere le disuguaglianze. E paradossalmente in quegli anni il rapporto debito-Pil è peggiorato perché senza crescita il debito sale, sempre.” Come si usa dire in questi casi, una storia d’amore giunta alla frutta fin troppo presto, forse anche a causa dell’errore politico di Mario Monti di “salire in campo” (come amava dire lui per distinguersi da chi “scese”) togliendo chiaramente spazi alla politica tradizionale. Sta di fatto, che oggi, nei salotti dei partiti si fa fatica a trovare un esponente che celebri il mandato di Mario Monti a guida del governo tecnico del 2011, nonostante buona parte di questi personaggi lo abbiano appoggiato per lungo tempo.

Vediamo ora però più nel dettaglio l’effettivo comportamento del governo Monti verso i valori del deficit e del debito italiano durante il suo periodo di azione. Questo, anche per capire la validità o meno delle critiche sul suo conto di distruzione della produzione italiana.

Nel terzo trimestre di quell’anno, il PIL italiano era sceso dello 0,5 per cento e nel quarto trimestre crollò addirittura dell’1 per cento. Ma come abbiamo scritto, il governo entrò in carica a metà del quarto trimestre, si tratta quindi di problemi ereditati da una precedente gestione. Perché scese il PIL? In quel periodo il famoso spread aveva raggiunto vette mai viste (oltre i 500 punti base). Come molti sanno, ciò significava un aumento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato e un costo quindi più oneroso del debito pubblico. In quel periodo finanziare la spesa pubblica chiedendo soldi sui mercati voleva dire pagare degli interessi altissimi. L’aumento dello spread ha effetti negativi sull’economia attraverso due principali canali. Il primo è di natura finanziaria: se tassi di interesse sui titoli di stato aumentano, tende a crescere anche il costo del denaro per banche, imprese e famiglia. Di conseguenza, le banche diventano più prudenti a prestare e razionano il credito (dandolo a chi ha più chance di essere solvente). E se i tassi d’interesse sui nuovi titoli emessi crescono, il valore di quelli già in pancia diminuiscono, offrendo questi ultimi un tasso d’interesse più basso sui mercati secondari. Di fatto, si creano buchi nei bilanci delle banche. In senso opposto, anche chi prestava denaro allo stato italiano di allora tendeva a fidarsi sempre meno proprio per via dell’aumento dello spread, fomentando così un circolo vizioso di aumento dei tassi d’interesse. Insomma, è stato quindi l’aumento dello spread insieme al calo nelle nostre esportazioni per la minore domanda che veniva dall’estero a causare la caduta del PIL nel 2011. Questo lo dice Cottarelli, uno tra i massimi esperti di economia del nostro secolo.

Come si è quindi comportato il governo Monti?

Nell’immediato, l’esecutivo rafforza i conti con misure restrittive che già Berlusconi aveva cominciato a introdurre: misure che ammontano a circa il 2-2,5% del PIL, la più consistente misura restrittiva dal 1997. La conseguenza immediata è un calo della crescita economica dovuto ad un aumento delle imposte. Ma come ci segnala la statistica, il calo del PIL è rimasto nei primi trimestri 2012 in linea con i cali dei due trimestri precedenti, segno che il calo derivi comunque anche dagli alti tassi d’interesse. Avrebbe potuto fare il contrario? Cioè aumentare la spesa per rivitalizzare l’economia come teorie keynesiane spesso ci insegnano? No, questo perché l’Italia non era un Paese con i conti in ordine. Fosse stata la Germania, un aumento di debito non avrebbe avuto effetti collaterali sul suo spread, mentre si sa invece come fosse la condizione italiana in quel momento sia dello spread sia del debito. Aumentare la spesa avrebbe di fatto chiuso la porta ai compratori di nostro debito, provocando il default.

Cosa venne allora a mancare? Sicuramente la stretta fiscale doveva essere accompagnata da un’azione diretta della BCE per calmierare lo spread. Cosa che in realtà avvenne, ma purtroppo in leggero ritardo, solamente nel luglio 2012 con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi. Il ritardo fu sicuramente dovuto all’opposizione nordica di utilizzare la banca centrale come “cassa” ma ad ogni modo, sembra inverosimile che se l’Italia non avesse imposto a sé stessa una stretta fiscale si sarebbe creata una politica monetaria centrale espansiva nei suoi confronti. Allo stesso modo, mancò un coordinamento europeo di utilizzo di debito comune per finanziare la spesa, come avvenuto finalmente con il Recovery Fund. Solamente in quella circostanza l’Italia si sarebbe potuta permettere di spendere con meno preoccupazione. Ma la cecità (e il timore) delle singole nazioni europee di allora impedì la maturazione di questo approccio.

E nei numeri, l’azione del governo Monti cosa ha comportato?

Il rapporto deficit/PIL nel 2012 diminuì dal 3,7 al 2,9%. Il calo è avvenuto nonostante l’impennata della spesa per interessi dovuta all’aumento dello spread. Al netto degli interessi, la parte primaria del bilancio è migliorata dell’1,5%, con un avanzo primario che ha toccato il 2,1% del PIL.  Perciò questa austerità è servita a migliorare i conti pubblici. Il debito pubblico, invece, aumentò dal 116,5% al 123,4%. Cos’era legato questo dato? A tre fattori chiave: il deficit (come appena citato) che era diminuito ma comunque alto, l’aiuto avvenuto in quell’anno per i paesi europei in crisi (Portogallo, Grecia e Irlanda) e in parte anche all’effettiva politica di austerità. È quindi vero che una politica di austerità porta ad un aumento del rapporto debito/pil. Ma si senta ancora Cottarelli sul tema: “Si tratta di un effetto del breve periodo. Il motivo è che una riduzione del deficit causa una riduzione permanente della velocità a cui il debito cresce mentre causa una riduzione una tantum nel livello del PIL, ma non una riduzione del suo tasso di crescita. Insomma, se in una fase iniziale il rapporto fra debito e pil cresce per effetto di un taglio della spesa pubblica, in seguito il rapporto comincia a scendere perché il debito si accumula ad una velocità minore, mentre il PIL, dopo un calo iniziale non scende più.” E di fatto, il rapporto debito/PIL si stabilizzò. Si stima che senza la stretta fiscale, il debito pubblico sarebbe salito al 142% entro il 2018, rispetto al 131%.

Insomma, il governo Monti operò in una situazione di crisi nera per il Bel Paese, con tutti gli errori che una manovra fatta in velocità può comportare (vedere gli esodati) ma affermare che si sia sbagliato proprio l’approccio non solo è falso ma è anche umiliante per la classe politica che primo, è stata collusa nella formazione della precarietà dei conti pubblici, e secondo, ha voluto fortemente quel governo votando legge dopo legge per poi dimenticarsene allegramente. Il Paese vessava in condizioni terribili dal punto di vista di bilancio e frenare questa pazza corsa verso il burrone non si sarebbe potuta fare, purtroppo, senza lasciare delle sgommate sul terreno: milioni di cittadini si sono impoveriti dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla crisi del debito sovrano del 2010, il margine di manovra era risicato e misure di sostegno  per questi ultimi sarebbero stati possibili grazie ad un costo del denaro più basso che arrivò dalla BCE poco più tardi con l’intervento di Mario Draghi e grazie a misure di accorgimento sui conti pubblici. Ignorare la realtà e semplificare l’analisi scaricando, quindi, la responsabilità totale di un problema cronico su qualche capro espiatorio pure inventato (Monti, Fornero e Poteri Forti) non rende orgoglio ad una grande Nazione ma delucida una patologia di rigetto di responsabilità che non farà crescere questo Paese.

Roberto Biondini e Claudio Dolci