Sulle elezioni americane è stato scritto e si è sentito, nonché visto un po’ di tutto, con una profusione di analisi del voto, soprattutto in Europa e nello specifico in Italia, spesso prive di contatto con la realtà. Il perché è presto detto, la speranza di noi europei è sempre quella che l’America risolva i problemi del mondo, in particolare quelli legati alla nostra sicurezza e alla libertà, ambedue concetti passibili di clamorosi fraintendimenti. Tuttavia, aggrappati a questa speranza in molti hanno finito per non voler riconoscere i problemi che da tempo affliggono gli USA e che se analizzati sotto il profilo economico possono aiutare ad interpretare meglio la rielezione di Trump.
Una crescita a debito
Occorre partire da un dato, l’economia Americana è sì in crescita, ma non tutti ne beneficiano allo stesso modo ed è da tempo che si susseguono molteplici trasformazioni socioeconomiche la cui espressione plastica più evidente è quella legata al debito pubblico. La cui vetta segna ora quota 34 trilioni di dollari (34.000 miliardi $, al cambio attuale circa 31.683 miliardi di €), un traguardo raggiunto a suon di record infranti, tra cui l’ultima impennata da 11 trilioni di dollari, tutti spesi negli ultimi 4 anni; e il futuro purtroppo non è roseo, le stime infatti pronosticano – per il 2054 – un rapporto deficit pil pari a 166%.
Figura 1 L’evoluzione del debito Americano e la futura traiettoria
Ma perché il debito Americano cresce e dov’è finita questa montagna di liquidità, ma soprattutto, perché nessuno se ne preoccupa più di tanto? La risposta è che la stragrande maggioranza del debito – espresso sottoforma di politiche espansive di stampo Keynesiano e clientelari – è servito per coprire le crepe di un’economia che da cinquant’anni non è più la stessa. L’origine di molti problemi, infatti, risale agli anni ’80, quando l’amministrazione Reagan scelse di risollevare il Paese, reduce dalla crisi petrolifera e dalle successive misure Volckeriane, con un taglio dell’aliquota marginale sui ceti più abbienti. L’idea era semplice, e tra l’altro basata sull’intuizione di Arthur Laffer, un taglio delle tasse avrebbe generato maggiori investimenti e con essi una crescita economica sostenuta, nonché, per effetto di uno sgocciolamento, più prosperità per tutti.
Privatizzare i profitti e nazionalizzare le perdite
Ed in parte è stato così, ma da quel momento storico in poi si deciso di ridurre le entrare del bilancio federale, senza però snellire, per converso, le spese, anzi. Due esempi, l’aliquota marginale è passata dal 70% del 1981, al 28% del 1986 (oggi è a 25,9%), mentre i costi collettivi, soprattutto negli ultimi 20 anni, sono enormemente aumentati, tanto che solo le politiche anti-Covid sono costate circa 5,6 trilioni di dollari ed altri 5 sono serviti per finanziare le guerre in Medio Oriente (Afghanistan e Iraq). Salvo per la parentesi degli anni ’90, in cui la crescita economica ha sostenuto e superato i costi, tanto da ridurre anche il debito pubblico, negli USA si è sempre adottata una logica vagamente bipolare: privatizzare i profitti e nazionalizzare le perdite.
Figura 2 Serie storica dell’andamento del GDP (PIL) Americano
E ciò ha funzionato perché la crescita del PIL ha sempre coperto, senza però mai compensare davvero, diversi problemi, generando una ricchezza, soprattutto finanziaria, che ha reso l’America ciò che conosciamo. Ma a quale prezzo?
Una crescita sì, ma solo per alcuni
L’outsourcing industriale, iniziato negli anni ’90 e che ha cambiato senso di marcia solo da poco, la perdita di potere contrattuale dei corpi intermedi, accompagna da una politica accomodante, e la spinta dell’innovazione tecnologica hanno col tempo eroso sia i compensi dei lavoratori, sia il tenore di vita della classe media, al contrario di ciò che è accaduto per chi aveva accesso agli strumenti finanziari. Si è così innestato un fattore di cambiamento di natura economica insieme a uno sociale, perché nel frattempo l’America è diventata sempre più multietnica ed contemporaneamente elitaria.
Figura 3 Il rapporto tra aumento della produttività e le paghe degli Americani
Figura 4 La riduzione del tenore di vita della classe media Americana
Figura 5 La crescita dell’indice Dow Jones
Figura 6 La dismissione del settore manifatturiero Americano
Al diminuire del tenore di vita della classe media Americana e mentre il Paese intero continuava a crescere, si è assistito a un fenomeno migratorio, non solo delle imprese all’estero, ma anche di coloro che si sono trasferiti negli USA per cercare fortuna.
Figura 7 L’immigrazione negli Stati Uniti
Tutti fattori, socioeconomici, sono stati resi più evidenti dalla crisi prodotta dal Covid-19. Durante quel periodo, infatti, l’amministrazione guidata da Joe Biden ha sì introdotto misure di stampo Keynesiano per sostenere la popolazione e le imprese, ma senza applicare i dovuti contrappesi (le riforme, soprattutto fiscali), con il conseguente aumento del divario tra due Americhe, quella di chi aveva un titolo di studio superiore (college) e quella di chi invece svolgeva lavori ben più umili.
Il ruolo svolto dall’impennata dei prezzi e dall’aumento dei tassi
La liquidità immessa nel mercato per sostenere la crisi pandemica, infatti, ha poi generato una spinta inflattiva che com’è noto colpisce soprattutto i meno abbienti; inoltre, le misure di sostegno non ha aiutato tutti nello stesso modo. Un esempio? Nel 2020 la disoccupazione colpì in modo diseguale chi aveva un titolo di studio superiore (6,5%) rispetto a coloro che non avevano neppure un diploma (15,4%).
Anche il successivo incremento degli stipendi, non è riuscito a compensare allo stesso modo tutti i lavoratori, perché chi faceva fatica ad arrivare a fine mese si è comunque ritrovato ad acquistare prodotti alimentari più alti rispetto all’epoca pre-Covid. Infine, durante la pandemia milioni di lavoratori hanno perso il lavoro, mentre i salari medi (calcolati su coloro che grazie a un titolo di studio elevato sono riusciti a continuare a lavorare) sono aumentati, alterando la percezione complessiva dei dati.
Figura 8 La crescita salariale reale rispetto all’inflazione
Figura 9 L’aumento dei prezzi al consumo per la stragrande maggioranza dei beni Americani
E le misure messe in atto per asciugare l’ingente liquidità immessa in un mercato bloccato dalla pandemia e dai colli di bottiglia ha colpito, ancora una volta, hanno sì arginato l’inflazione, ma anche colpito maggiormente coloro che erano già in difficoltà, come ispanici e neri. I quali hanno riscontrato maggiore difficoltà nell’accesso ai servizi finanziari, e non riescono tuttora a risalire l’ascensore sociale.
Si è così rafforzato ancora di più il divario tra le due Americhe. Quella di chi grazie a un titolo di studio elevato, quindi a una buona famiglia d’origine, ha concluso il college, risparmiato durante il Covid, magari cambiato lavoro e guadagnato qualcosa extra investendo i risparmi in borsa. E coloro che invece, lavorando come camerieri o in fabbrica, hanno perso il lavoro, la casa e hanno sì visto un incremento dei salari, ma non superiore al costo della vita. Nella media le due Americhe si sono fuse in una, sempre in crescita.
Esiste ancora l’American Dream?
Oltre all’aumento del debito e di una ricchezza che ora si concentra nell’élite di un Paese ormai lontano dai fasti industriali del passato e a più riprese impantanato in guerre molto costose, si sono andati sommando anche i problemi demografici di quasi tutti i Paesi Occidentali, come l’aumento della spesa sociale e la polarizzazione degli Americani, sempre più impossibilità a riconoscersi gli uni con gli altri.
Andando nell’ordine, la crisi demografica c’è anche negli USA, seppur meno rispetto ad altri Paesi Occidentali, e a preoccupare è l’aumento del costo della sanità dovuto a un progressivo allungamento dell’aspettativa di vita. Da soli, Medicare e Medicaid comportano una spesa annua di 1,6 trilioni di dollari, col primo che occupa ora circa il 10% del bilancio federale e che si stima salirà fino al 18% nel 2032. E la domanda, negli Usa come in Italia, è sempre la stessa, chi pagherà i conti e come?
In un’America sempre più multietnica e divisa per titolo di studio, si è andato col tempo sedimentando anche un altro problema, quello della polarizzazione politica. Le bolle create dai Social hanno acuito le differenze socioeconomiche già in essere, tanto che il NYT, analizzando i flussi migratori di 3,5 milioni di Americani che dalle precedenti elezioni hanno cambiato Stato, ha scoperto come in molti abbiano scelto il proprio quartiere di destinazione sulla base della preferenza politica. Sarà poi una coincidenza, ma già questi dati evidenziavano un cambio di colore di diversi Stati chiave. Una bolla nella bolla, come evidenziato a caldo da David Brooks, columnist di un giornale, il NYT, che ha impedito di vedere le profonde trasformazioni che gli USA hanno attraversato.
Il peso di una narrazione che non regge più nella rielezione di Trump
A far vincere Trump non è stata quindi la follia di un popolo ignorante, ma la stanchezza nei confronti di un sistema che economicamente non regge più il peso delle sue promesse. L’American Dream resta per pochi, pochissimi, mentre una grossa fetta della popolazione è invisibile, coperta dallo scintillio di un’economia oggi a debito. Certo, la crescita c’è, ma non copre le spese e soprattutto avvantaggia di più alcune fasce della popolazione rispetto ad altre.
Ci sono poi i problemi del partito Democratico, incapace di sostituire una leadership con un’altra altrettanto matura, e la difficoltà di Harris di smarcarsi da un’amministrazione che nel portafoglio di chi era e resta svantaggiato ha tolto più che dato. È poi venuta meno una sintonizzazione sui problemi reali dell’America profonda, né xenofoba, né razzista, ma semplicemente stanca, impoverita e rassegnata nel vedere inascoltate le proprie istanze, perlopiù legate a pari opportunità e un maggior benessere. Forse, se invece di dedicare tanto spazio a temi linguistici e dimostrare incertezza su temi geopolitici (Israele?) ed energetici (fracking?), le cose sarebbero potute andare diversamente.
Tuttavia, resta aperto l’interrogativo; perché votare proprio un esponente di quell’1% di super ricchi che non paga il dovuto, che ha contribuito a sbilanciare i rapporti socioeconomici degli USA, ma soprattutto, che con la sua agenda peggiorerà, anziché migliorare, la condizione delle fasce di popolazione che lo sostengono?
La risposta è che la narrazione di Trump è stata più efficace nel riconoscere che c’erano degli esclusi e nell’offrire loro l’illusione che sia possibile mantenere un welfare espansivo riducendo le tasse ed affidando tutto alla crescita trainata dalla tecnologia. E lo ha fatto usando due totem, Musk e Vance. Ambedue icone, il primo dello sviluppo conoscitivo ed innovativo, mentre il secondo di quell’American Dream che è parte integrante della cultura popolare Americana.
Quale futuro per l’Europa
Da qui una riflessione sull’Europa e sul perché sia stato, e sia tuttora così difficile riconoscere la profonda trasformazione socioeconomica dell’America. Il motivo è che anche l’Europa, così come gli elettori di Trump, si è aggrappata a una speranza, ossia quella di poter affidare la responsabilità delle proprie mancate scelte (tra l’altro le stesse elencate nel rapporto sulla competitività di Mario Draghi e di Enrico Letta) a un Paese che ora deve badare di più a sé stesso. Il mancato riconoscimento di un confine netto e l’eccessivo protrarsi nel tempo di un rapporto simbiotico, hanno fatto sì che noi europei anteponessimo i nostri propri bisogni ed aspettative, proiettandoli, sopra quelli altrui.
di Claudio Dolci
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