Luglio 22, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Il Medioriente detta al mondo l’agenda del clima e della geopolitica

La COP 28 di Dubai, la liberazione degli ostaggi israeliani e infine l’Expo 2030, sono tutti eventi in capo ad altrettante monarchie, oggi simbolo del nuovo corso della storia: non più a guida Occidentale, ma neppure comunista. Cina e Russia seguono infatti la nuova testa d’Ariete mediorientale, la prima perché troppo occupata a soccorrere un’economia domestica in crisi e la seconda poiché ormai impantanata nella guerra in Ucraina, mentre i petrodollari avanzano e creano paradossi. Primo fra tutti quello degli Emirati Arabi Uniti, membro attivo dell’Opec+ e al contempo a capo della conferenza internazionalela COP 28 – che ha come scopo quello di ridurre le emissioni di gas climalteranti. Uno dei tanti cortocircuiti del nostro tempo.

La COP 28 cerca ancora soluzioni per il riscaldamento globale?

La necessità di riformare il modello COP, che ormai dal lontano ’95 cerca di porre freni al riscaldamento globale, è evidente e da tempo, soprattutto alla luce degli scarsi risultati maturati sin qui. Il 2023 è stato infatti l’anno più caldo di sempre+2°C rispetto l’era preindustrialee si stima che anche gli Accordi di Parigi (COP21 – 2015), volti a non superare il +1,5°C, siano già ampiamente irrealistici, tanto che già oggi le Nazioni Unite dichiarano – anche al netto del raggiungimento di tutti gli impegni presi dai Paesi sottoscrittori – si andrà incontro ad un aumento tendenziale delle temperature nell’ordine dei +2.9°C. Un disastro da imputare al largo utilizzo dei combustibili fossili, di cui è tra l’altro è in programma un’estensione, sia per ricerca che per produzione.

Fonte: The Production Gap https://productiongap.org/2023report

Lo scenario in cui si riescano davvero a ridurre le emissioni globali facendo salire la colonnina di mercurio solo, si fa per dire, di +1.5°C, sono appena del’14%. Ed forse è proprio alla luce di questi dati che si è scelto di organizzare la COP 28 a Dubai e di farla condurre dal Sultano Al-Jaber, già a capo dell’Adnoc (Abu Dhabi National Oil Company).

Gli Emirati Arabi Uniti fondano la propria ricchezza su petrolio e gas

Certo, gli Emirati Arabi Uniti – stando ai report del FT – hanno investito 200 miliardi in progetti perlopiù green in giro per tutto il mondo, ma è altresì vero che Adnoc ha destinato quasi altrettanti fondi, per l’esattezza 150 mld distribuiti nei prossimi 5 anni, in progetti volti all’espansione delle proprie attività nel campo delle fonti fossili.

L’obiettivo è quello di aumentare la produzione di petrolio dai 4 Milioni di barili a giorno d’oggi ai 5 nel 2027, mentre il GNL passerà dalle attuali 6 Mt alle 15,6 Mt nel 2028. Tutto nell’ordine naturale delle cose per un Paese il cui PIL dipende al 27% proprio all’estrazione di petrolio e gas. Non è stata quindi una sorpresa, salvo per qualche sognatore, lo scoop del Guardian, in cui è lo stesso Al-Jaber a sostenere che “nessuna scienza dimostra che un’uscita dai combustibili fossili sia necessaria per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi sopra i livelli pre-industriali”. Ed incalzato sullo stop ai combustibili fossili chiosa “a meno che – ha proseguito Al-Jaber – qualcuno non voglia riportare il mondo indietro all’era delle caverne”.

Pragmatico e risoluto Al-Jaber ha semplicemente reso palese la posizione degli Emirati Arabi Unita, tra l’altro condivisa dall’Arabia Saudita e dal Qatar.

Diplomazia e gas: il Qatar gioca col fuoco, dando con una mano ciò che toglie con l’altra

Il Qatar, ad esempio, Paese piccolo e per giunta situato in una regione ad alta conflittualità, deve il 40% del proprio PIL al del terzo giacimento di gas naturale più grande al mondo, che però è in condivisione con l’Iran. Il giacimento, North Dome Gas Field, è infatti situato nel Golfo Persico, in un guado immaginario tra i due Paesi, che oltre all’estrazione di combustibili fossili condividono la lotta per la liberazione della Palestina, anche se con profili geopolitici differenti. Se l’Iran non nasconde le antipatie per Israele e gli Stati Uniti, il Qatar, invece, vede nella Casa Bianca un potenziale alleato e per questo mantiene una posizione ambigua, interpretando sia il ruolo di negoziatore di ostaggi che quello di finanziatore di Gaza.

Stando alle fonti dell’agenzia Reuters, diverse centinai di milioni di dollari provenienti dal Qatar fluiscono, ormai dal 2014, nelle casse di Gaza, la quale ne incamera addirittura 30 mln ogni mese per il solo funzionamento della centrale elettrica e per la popolazione residente. A parole questi finanziamenti sarebbero tracciati, ma la storia recente ci ricorda come il Qatar abbia già innescato frizioni nel Medioriente proprio a causa del suo ruolo ambiguo; che, nel 2014, obbligò l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Bahrein e lo Yemen a sospendere i loro rapporti diplomatici con Doha.

L’accusa dei vicini di casa del Qatar? Il sostegno di gruppi terroristici intenti a destabilizzare la regione attraverso l’emittente qatarina Al Jazeera. Tant’è che tra i 13 punti per porre fine al blocco sul Qatar vi era la cessazione di ogni intesa militare-economica con Hizbullah, Fratelli Mussulmani, Is e Al-Qaida. E all’indomani dell’attacco del 7 Ottobre contro Israele, Doha ha subito espresso critiche verso la strategia politica di Netanyahu, salvo poi negoziare il rilascio degli ostaggi. Infine giova alla memoria ricordare come il Qatar abbia dato ospitalità non solo ad Hamas, ma anche esponenti del regime talebano durante il conflitto Afghano ed abbia aiutato gli Usa nella ritirata da Kabul.

Se il Qatar gioca da battitore libero e gli Emirati Arabi Uniti difendono l’oro nero, è all’Arabia Saudita che occorre guardare per capire il conflitto Israelo-Palestinese e all’avvenire del domani.

Rinascimento o fede? L’Arabia Saudita promette il futuro, ma a caro prezzo

L’Arabia Saudita è l’anello di congiunzione tra passato e futuro. Riyadh controlla le riserve di petrolio che per decadi, prima dell’utilizzo del fracking da parte degli USA, hanno condizionato la politica estera di Washington.  Gli Accordi di Abramo avrebbero dovuto infatti riavvicinare Israele all’Arabia Saudita, il tutto sotto l’egida degli Usa, e proprio per questo Muhammad Bin Salman (MBS), il 20 Settembre scorso su Fox News, annunciava i passi in avanti. Ma il 7 Ottobre ha cambiato tutto. La normalizzazione si è fermata e così l’Iran e forse il Qatar hanno messo a segno la loro più importante vittoria: impedire il disgelo tra potenze Arabe ed Israele.

Senza una stabilizzazione dei rapporti basata sull’intesa tra più potenze regionali, il Canale di Suez, e con esso lo scambio di merci e persone tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, resta suscettibile alle tensioni regionali. Un rischio per la Casa Bianca e un freno alle mire di MBS, che con l’Expo 2030 contava e forse ancora spera di lanciare l’Arabia Saudita nel futuro, che però funziona ancora col petrolio di ieri.

L’Arabia Saudita deve infatti la sua fortuna ai combustibili fossili, che contribuiscono a determinare il 50% del suo PIL. La sola Aramco detiene il 17% delle riserve petrolifere del globo, per questo non desta sorpresa il fatto che l’Arabia Saudita stia incrementando, già dal 2015, la sua produzione annua di petrolio dell’1% con l’obiettivo di arrivare sino al 2050 (ciò equivale a una crescita del 45%). Ed anche sul fronte del gas i numeri non sono affatto green, poiché l’obiettivo è raggiungere il 2030 con un incremento di produzione del 40%.

L’oro nero muove ancora il mondo e il PIL Russo ne è la prova

Il problema del clima? Sì, esiste, ma prima vengono i profitti. Pare il gioco delle tre carte, ma in realtà è l’equilibrio tra domanda e offerta. Finché si continuerà a domandare petrolio e gas questi verranno estratti, indipendentemente dagli impegni delle varie COP, alle promesse elettorali e a quanto dimostrano, a suon di dati, gli scienziati del clima. È l’economia e per ora funziona ad energia fossile. Punto.

A testimonianza di ciò si può ricordare come all’inizio dell’invasione Ucraina si pronosticasse un tracollo verticale dell’economia russa, con tanto di default stile Argentina, che di fatto però non c’è mai stato perché il mondo ha sempre fame di oro nero. La Commissione UE ha da poco rivisto in rialzo  il PIL russo per il 2023 (+2%) e il FT ha evidenziato come il 20% del GNL Russo transiti dall’Europa per poi raggiungere il mondo. Trasbordi, triangolazioni e dipendenza energetica armano ancora l’esercito russo.

D’altronde il picco della domanda di combustibili fossili deve ancora arrivare (si prevede per il 2030), così come quello delle emissioni di CO2. La Cina, ad esempio, il cui mix energetico è dipendente all’’80% dai fossili, è responsabile del 25,88% delle emissioni di CO2 al mondo; seguono gli Stati Uniti, l’India, la Russia e l’Indonesia. E nel complesso anche le due manifatture d’Europa presentano ancora ampi margini di miglioramento: la Germania, ad esempio, dipende dai fossili per il 50%, mentre l’Italia per il 36% (fonte: FT).

I paradossi di ieri e di oggi

Persino i titoli in borsa non parteggiano più per il clima. A Wall Street l’indice S&P 500 Global Energy Index ha perso, dall’inizio dell’anno, il 31%, mentre l’indice dell’energie fossili ha perso solo l’1%. L’aumento dei costi sta letteralmente bruciando i progetti legati alle energie rinnovabili, con impianti e grandi investitori dell’automotive che ritornano ora con interessa a guardare ai motori termici.

Di fronte all’anno più caldo di sempre sarebbe legittimo aspettarsi un maggior investimento in fonti rinnovabili, invece non è così. Deloitte ha da poco presentato un report, alla COP 28, in cui illustra i denari necessari a togliere il giogo del petrolio al collo del mondo: dai 5 ai 7 trilioni di dollari all’anno, ma ad oggi non si superano i 2. Si attribuisce la colpa della situazione agli utenti che non scelgono auto elettriche e al costo, senza però ragionare sui denari bruciati ogni anno dal petrolio, dal gas e dal carbone e di come si potrebbero utilizzare per aiutare i progetti green.

Se il mondo brucia è alla triade che oggi ne rivendica la guida che occorre volgere lo sguardo e alla pesante eredità che Wall Street e il PIL russo ci raccontano: questo, purtroppo, mondo funziona a petrolio e noi rischiamo ogni giorno di più di fare la fine dei dinosauri.

di Claudio Dolci