Luglio 22, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Il PNRR, una nuova spinta

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L’unione fa la forza. È questo l’imperativo che da sempre spinge ogni individuo ad affidarsi agli altri e a costituire dei gruppi, tant’è che persino nelle società più individualistiche nessuno è mai solo. D’altro canto, se la specie umana non avesse costruito delle comunità che sin dai tempi più antichi fossero state capaci di affrontare le avversità, forse oggi il mondo non sarebbe lo stesso. E questo spirito di sopravvivenza ricompare ogni qualvolta si fronteggiano grandi sfide, come quella dell’attuale crisi economica (anche se purtroppo, c’è sempre qualcuno che si distacca dal gruppo per andare incontro all’ignoto da solo, riportando spesso scarsi risultati). Insieme a Roberto Biondini, cercheremo quindi di comprendere come la comunità europea stia affrontando la grande sfida del momento e quali strategie abbia in serbo per condurre al meglio la giostra dell’inflazione.

Nei precedenti appuntamenti si è discusso sia di inflazione, sia di deflazione, giungendo a spiegare i reciproci meccanismi d’innesco e le risposte dei singoli Stati e delle Banche Centrali. Oggi però, oltre alla deflazione, l’Europa, e ovviamente l’Italia, devono rispondere anche alla pandemia. Saranno sufficienti il Pnrr italiano e il Next Generation EU a superare tutte queste difficoltà?

Per rispondere è necessario fare prima un passo indietro. Dalla formazione dell’UE, al recente presente, le politiche fiscali di ogni Stato membro sono state di competenza nazionale; di conseguenza, ad esempio, Italia e Spagna hanno potuto adottare regimi di tassazione completamente diversi pur avendo un’unica politica monetaria (questa gestita dalla BCE). E non c’è bisogno di essere degli economisti per capire che se vi fosse una politica fiscale comune sarebbe più facile coordinarsi con un’unica politica monetaria. Per capirci, è più utile che due cavalli trainino una carrozza andando nella stessa direzione, oppure no? Certo, è vero che per avere una politica fiscale comune sarebbe necessario che gli Stati membri condividessero anche un’economia simile e rapporti commerciali molto stretti, altrimenti si rischia di organizzare una gara sui 100 metri e far gareggiare una rana, una lepre e una tartaruga: l’esito è scontato. Occorre quindi destrutturare la complessità e osservarne ogni specifica sfaccettatura. Ad esempio, è abbastanza vero che la zona Euro (non UE) sia una zona commerciale nella quale gli Stati che la compongono condividono più somiglianze che differenze. E proprio per questo, una politica fiscale comune (almeno su questioni più importanti) sarebbe possibile e sicuramente utile a tutti per potenziare lo sviluppo della zona.

Nonostante questo, ad oggi, il desiderio di far convergere le singole politiche fiscali non ha attecchito, anche perché in parte ciò significa richiedere un sacrificio sia a chi galoppa e vorrebbe andar da solo, sia a chi è entrato nella moneta unica per il rotto della cuffia e oggi fatica a far quadrare i conti. Senza considerare il fatto che il dumping fiscale ha avvantaggiato diversi Paesi, i quali vorrebbero mantenere i privilegi acquisiti, a scapito degli altri. Tuttavia, là dove ha fallito il confronto e la convergenza di intenti, è riuscita la pandemia, tant’è cheil Next Generation EU e il piano SURE della commissione europea hanno di fatto gettato le fondamenta per una politica fiscale comune, utile sia per combattere la deflazione, sia per far ripartire la produzione. 

Effettivamente senza questo intervento i rischi per la tenuta dei conti italiani sarebbero stati ben maggiori, ma non è stato facile far digerire a tutti gli Stati membri questo pacchetto di interventi e taluni, come la Finlandia, sembrano ancora intenzionati a mettere i bastoni fra le ruote all’intero progetto. Non è forse così? E come funziona, nel concreto, il Next Generation EU e il piano SURE?

Sì, le criticità ci sono ancora e il diritto di veto, nonché il peso del Consiglio europeo, dove siedono Rutte, Orbàn e Kurz (solo per citarne alcuni), rappresentano dei potenziali ostacoli. Tuttavia, l’interdipendenza tra gli Stati comunitari è oggi talmente forte che persino coloro che erano più ostili al Next Generation EU l’hanno poi approvato, stanziando delle cifre mai viste prima proprio per quei Paesi, come il nostro, ritenuti delle “cicale”: questo segnale, insieme alla politiche espansive e la sospensione del Fiscal Compact, rappresentano dei passi in avanti che mai, prima d’ora, ci si sarebbe aspettati di poter osservare.

Ad ogni modo, il vantaggio del debito comune, ovvero quello che finanzierà il Next Generation EU, è che invece di domandare al mercato i finanziamenti per sostenere la spesa nazionale, ottenendo così un tasso d’interesse sostenuto, si delegherà all’UE la raccolta dei fondi, ponendo a garanzia la firma di tutti e ottenendo un tasso d’interesse più contenuto. In questo modo, i paese più deboli sui mercati (come l’Italia) si potranno finanziare con meno costi.

In altre parole, l’UE ha chiesto al mercato i soldi per finanziare i progetti della comunità europea, ottenendo un tasso estremamente basso: addirittura negativo! Un gran risparmio per molti, una prova di solidarietà per tutti. 

Certo, il meccanismo è simile a quello che contraddistingue l’acquisto al dettaglio da quello all’ingrosso, ma c’è qualcos’altro, giusto?

Esatto, i mercati infatti si possono fidare di più di una macro area commerciale piuttosto che di un singolo Stato, come potrebbe essere l’Italia.

Non è detto. Se a chiedere i soldi fosse stata la sola Olanda, o la Germania, forse i tassi sarebbero comunque stati bassi, no?

Sì, il problema dell’Italia, ma non solo suo, è il debito monstre che l’accompagna da troppo tempo e l’incapacità di riformare settori chiave per l’investimento e la ripresa economica. In breve, senza l’Europa sarebbe stato impossibile accedere a linee di credito a un tasso così basso e gli interessi si sarebbero cumulati a quelli già esistenti, producendo un debito che forse non saremmo stati in grado di gestire. Con l’Europa, invece, è come se si fosse costruito un soggetto extra nazionale capace di garantire per tutti, assorbendo maggiormente i punti di forza, piuttosto che le debolezze, dei singoli Stati membri; quando si dice “l’unione fa la forza”. Se infatti, poniamo il caso, l’Italia non riuscisse a ripagare il suo debito, a causa di un ulteriore rallentamento del Pil o altri fattori, ecco che la Germania, o qualche altro Paese europeo più virtuoso (dal punto di vista contabile) onorerebbe il debito contratto. Diciamo che alla fine dei giochi, quest’ultima eventualità è una garanzia aggiuntiva che non verrà usata, perché ogni Stato riuscirà a ripagare il proprio debito, ma è come se ci fosse “un’uscita gratis di prigione” al Monopoli per i Paesi più indebitati, che consente quindi di mantenere tranquilli i mercati circa la solvibilità del debito. Inoltre, fattore per nulla secondario, l’Unione Europea ha persino previsto dei contributi a fondo perduto, il che significa che l’Italia, ma anche Spagna, Francia, Grecia etc. non dovranno restituire queste erogazioni direttamente.

Ma da dove provengono questi soldi a fondo perduto? 

In breve, da una politica fiscale comune che riguarda la tassazione nella zona UE, ad esempio, tasse su emissioni, sui giganti del web, eccetera. Grazie a tutto ciò, l’Italia è riuscita ad ottenere (191,5+13,5) miliardi di prestiti a tassi infinitesimali e sovvenzioni gratuite, che è più di qualsiasi altro Stato europeo. In questo modo dovrebbe esserci, finalmente, un ulteriore incentivo per fare le riforme che si invocano pressoché da sempre, ma che nei fatti restano parole al vento. Così facendo si potrà far partire un circolo virtuoso che da un lato spinga le riforme fiscali, green, digitali, quelle sulla PA, sulla giustizia e quelle contro l’evasione e la corruzione, mentre dall’altro faccia riottenere all’Italia credibilità all’estero, diminuendo così il costo del nostro debito con tassi d’interessi e spread più bassi. Infine, con la presenza di riforme strutturali l’Italia potrà crescere di più, aumentando gli introiti senza bisogno di alzare le tasse, con la conseguente riduzione del nostro debito. 

Già, le riforme: tasto dolente e che si trascina da troppo tempo, ma prima di procedere vorrei fare un’osservazione. Dalle tue parole si comprende il rammarico, e forse anche la frustrazione, dei Paesi frugali nei confronti del sud Europa, perché a conti fatti loro fanno una scommessa, ovvero che l’Italia, ma non solo lei, riesca a fare quel salto che da sempre rimanda con le scuse più improbabili. D’altra parte, se nel nostro Bel Paese queste riforme non sono mai state fatte un motivo ci sarà ed è perché costano voti, creano dissapori e soprattutto rompono quello status-quo, quell’indolenza verso il cambiamento, che pochissimi hanno il coraggio di sfidare: fisco, agevolazioni, pensioni, concorrenza, corporazioni, giustizia, burocrazia, evasione (tanto per citarne alcune), sono qui da sempre. Ce la farà l’Italia?

La dico in una parola: deve. Altrimenti i costi saranno insostenibili e il rischio che si vada a prendere i soldi nelle tasche degli italiani è probabile, oppure che si finisca in bancarotta (o che esca dalla UE) è possibile. 

Lo so, il tempo a disposizione per cambiare rotta è poco e questo per due motivi. Il primo è di natura tecnica: se non si programma in tempi rapidi l’utilizzo dei fondi UE li perderemo per sempre. Il secondo motivo è anch’esso di natura tecnica, ma di grado monetario, e riguarda il ritorno dell’inflazione. Infatti, nel momento in cui l’inflazione tornerà a livelli utili per la crescita economica (vicino, ma sotto al 2%) la BCE dovrà, con cautela, concludere quel lungo percorso di stimolo monetario per evitare l’arrivo dell’iperinflazione, che nella prima parte de La Giostra dell’Inflazione avevamo già bollato come pericolosa. Il problema, infatti, sarebbe nuovamente la sostenibilità del nostro debito. Se la Bce alza (direttamente o indirettamente) i tassi d’interesse, il costo del nostro debito aumenterà di conseguenza e se nel frattempo non si saranno fatte le riforme necessarie, si corre il rischio che il tasso d’interesse si alzi troppo repentinamente, aumentando così il costo di un debito già esagerato (160% del PIL!). Bisogna quindi agire in fretta e bene, perché se è vero che un’inflazione al 2% è ben gradita per far ripartire l’economia, è vero anche che bisogna presentarsi di fronte ad essa con i compiti a casa fatti, altrimenti sono guai.

Capisco, e prima di concludere vorrei tornare al discorso sul debito. I titoli emessi della Bce sono Eurobond oppure no?

“Ni”, nel senso che i famosi eurobond erano pensati come condivisione di debito tra tutti gli stati membri, ma due peculiarità li rendono diversi dai fondi del Next Generation EU. Primo, si parla solo di debito futuro e non di debito pregresso: cioè conta solamente il debito che si fa da ora in avanti, non il debito che si è fatto in passato per decisioni nazionali e che si cerca di colmare con fondi europei, magari perché i propri non bastano. Secondo, le decisioni delle politiche fiscali progettate con i fondi presi dal Next Generation EU sono scelte di comune accordo tra tutti gli stati aderenti. In altre parole, non sono determinate da decisioni nazionali. Il che, a mio avviso, è logico e di buon senso, perché se il debito è comune lo devono essere anche le decisioni assunte. 

Per concludere questa puntata: si prenda abbastanza debito da renderlo difficile da maneggiare, lo si avvolga ben stretto con vincoli e leggi che ne impediscano la sostenibilità, poi lo si lasci riposare per cinquant’anni, lasciando che gli interessi si gonfino sempre di più. Ed ecco che la frittata sarà fatta. Il consiglio? Aspettare la prima grande crisi economica o pandemica per invitare gli amici a tavola e non restare da soli a mangiare quell’intruglio.

Ecco, se la situazione economica attuale fosse una ricetta, suonerebbe più o meno così, ma si da il caso che è proprio nei momenti di difficoltà, quando si è smarrita la via e casa è ormai lontana, che si riaccende, con più vigore di prima, la speranza e la voglia di lottare. È troppo tardi? Chi lo sa, ma se non si prova a lottare per cambiare qualcosa, sarà sempre troppo tardi.

Roberto Biondini e Claudio Dolci