Luglio 27, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

La litigiosità che dimora nelle Highlands

4 min di lettura

A nord del Regno Unito si trova la “terra dei Gaeli”, culla di clan uniti dalla lotta per difendere la propria cultura e stabilire l’indipendenza dagli odiati inglesi; loro antagonisti e allo stesso tempo specchio di quell’intrinseca contraddizione che lega nazioni diverse sotto un unico vessillo. Un copione già visto e ripreso un po’ ovunque in tutto il mondo, ma che qui in Scozia trova forse la sua espressione più genuina, talmente viva da perdurare da secoli senza mai spegnersi davvero. Tant’è che, nonostante siano ormai trascorsi oltre trecento anni di distanza della nascita della Gran Bretagna, ossia da quel 1707, anno in cui gli scozzesi accettarono di unirsi definitivamente agli inglesi, resta vivo nel sangue e nella memoria del popolo delle Highlands il sogno dell’indipendenza assaporato con Robert Bruce e la battaglia di Bannockburn del 1314. Da allora sono passati secoli, si è persino stabilito un periodo di pace con l’odiato nemico di sempre, perdurato dal XVII al XX secolo, eppure oggi, grazie alla Brexit, sono saltati tutti i punti di sutura e quella che sembrava una cicatrice ormai guarita ha ripreso a sanguinare e far vacillare la stabilità del Regno Unito.

A ragion del vero i dissapori tra inglesi e scozzesi sono ben più recenti del 2016 e trovano una prima recrudescenza negli anni ’70, dopo un periodo di turbolenze interne che crebbe sotto il governo di Margaret Thatcher. Nel 1979, infatti, anno in cui la Thatcher divenne primo ministro, ben il 40% degli scozzesi si definiva britannico, mentre vent’anni dopo (con ancora alla guida del Paese la Lady di ferro) era solo il 13% a indentificarsi come tale, mentre l’80% si riteneva semplicemente Scotch. Ad aumentare ulteriormente le distanze ci pensò poi Blair, che negli anni ’90 spinse i Labour a destra, generando scompiglio a nord del Paese, dove la guida a trazione centro-sinistra era più apprezzata. Sempre i Labour sostennero il referendum del 2014 per l’indipendenza scozzese, voluto dal Partito Nazionale Scozzese (Snp, fondato nel 1934) e che diede esito negativo (55% contro e 45% a favore). Sulla carta doveva essere una vittoria che avrebbe sancito la permanenza della Scozia sotto il grande cappello del Regno Unito, ma nei fatti si tramutò in un sentimento ancor più acceso verso l’indipendenza del popolo delle Highlands. Da quel momento in poi, infatti, l’Snp conquistò sempre più consenso: “alle elezioni britanniche del 2015 l’Snp ha ottenuto 56 seggi su 59 riservati alla Scozia e successivamente ha prevalso in ogni elezione, da quelle locali del 2016 e del 2021, a quelle generali del 2017 e del 2019, pure in quelle europee del 2019” (come riportato da Micheal Keating in un articolo pubblicato sul mensile Limes).

E tale serie di vittorie trova una sua possibile spiegazione nel progressivo restringimento degli orizzonti politici del governo britannico, intento a riparare i danni lasciati dalle guerre e da un impero coloniale sempre più lacerato e ormai prossimo alla dissoluzione. È come se a Downing Street si fosse badato maggiormente a questioni geopolitiche ed economiche rispetto ai problemi sociali e politici, concedendo sempre più margini d’azioni al nord del Paese: prova ne è la nascita del Parlamento scozzese di Holyrood, nel 1999. E sulla scia di questi errori politici si è arrivati all’attuale situazione, molto favorevole agli indipendentisti. L’avvento della pandemia di Sars-Cov2 si è infatti andato a sommare a un crescente sentimento identitario, alla cattiva gestione della separazione dalla Ue (per altro non ancora del tutto conclusa) e al fiorire dell’economia scozzese (che deve al petrolio la sua maggior fonte d’introiti); inoltre, in virtù del riaffermarsi dello scontro tra blocchi d’influenza geopolitica e il costante scioglimento dei ghiacci polari, la posizione della Scozia ha oggi assunto un ruolo ancor più strategico rispetto al passato. Eppure l’insieme di questi elementi tutti pro-indipendenza, tangibili o meno che siano, nasconde in realtà una serie di ostacoli proprio sul percorso verso l’emancipazione territoriale scozzese.

Per comprendere appieno il quadro occorre ripartire dal referendum del 2016, quando solo il 38% degli scozzesi votò a favore dell’uscita dall’Ue. Questo voto si spiega con la necessità per gli scozzesi di mantenere una posizione filo-Ue, necessaria per poter ottenere sempre maggiori benefici nel braccio di ferro con Downing Street. Dopo tutto, l’economia scozzese vive grazie al petrolio scoperto nei mari del nord, utilizzato sin da subito dall’Snp come leva per scardinare il potere inglese e ribadire le basi di una solida indipendenza fuori dal perimetro UK. Il problema è che quest’arma di ricatto, per quanto efficace, sia di fatto del tutto teorica e poco sfruttabile nella realtà dei fatti. In parte perché l’export scozzese vive per il 61% di commerci verso gli altri membri del Regno Unito, e poi perché senza la partnership con l’Ue, sfumata proprio a seguito del referendum del 2016, la Scozia può ben poco fuori dal perimetro nel quale è ora confinata. Non dispone infatti di una propria valuta, non ha legami stabili con altri Paesi e difficilmente potrebbe essere riaccolta nell’Unione, perché altrimenti questo darebbe un impulso secessionista a tutte quelle altre nazioni presenti in Europa che detestano lo Stato a cui fanno capo; Catalogna in primis, ma non solo lei. L’Ue non può permettersi di trasformare l’Unione in un albergo con tanto di porte girevoli e corrimano in oro, perché altrimenti regnerebbe solo il caos di micro staterelli coinvolti in perenni frammentazioni. Ed anche se fosse risolto questo guazzabuglio di contraddizioni, per cui una nazione vuole diventare Stato per mantenere un’indipendenza che perderebbe subito dopo confluendo in un’altra Unione (con vincoli forse più stringenti), rimarrebbe insoluta la questione geopolitica, tutt’altro che trascurabile. A Faslane, in Scozia, è infatti ormeggiata la flotta di sommergibili nucleari con la quale la Nato controlla le mire del Cremlino. Non è un caso che Russia e Cina siano in prima fila nell’appoggiare il sentimento indipendentista che alberga nelle Highlands, ma è difficile che la Nato (e quindi gli Usa e l’Ue) stiano a guardare incoraggiando gli scozzesi a separarsi dagli inglesi, anzi. Lo stesso Johnson, all’indomani della Brexit, ha negato al Parlamento di Holyrood la possibilità di indire un altro referendum, perché nessuno al momento vuole che la Scozia prenda il largo e forse neppure gli scozzesi stessi.

E dai recenti sondaggi sono per lo più i giovani scozzesi (sotto i 25 anni) a volere l’indipendenza, con una quota pari al 67%, mentre sulla popolazione generale il sentimento indipendentista scende al 52%. Ed anche in questo caso la spaccatura generazionale si può spiegare attraverso la politica. Grazie all’arma dell’indipendentismo, l’Snp ha garantito grandi vantaggi al governo di Edimburgo, i quali non si fermano all’istituzione del Parlamento di Holyrood, poiché quella sarebbe stata poca cosa senza le concessioni fatte successivamente da Cameroon. Fu lui infatti che nel 2014, per scongiurare la vittoria dei secessionisti, a cui lui stesso aveva però concesso il referendum, promise che in cambio della vittoria del No la Scozia avrebbe avuto più libertà nella scelta delle politiche fiscali e di welfare. In tal senso è come se il cappio che oggi grava attorno al collo di Downing Street glielo avessero cucito addosso i vari leader di partito, che incapaci di rinsaldare le fratture interne provocate dalla storia, hanno preferito percorrere la strada “facile”, quella delle promesse e continue sfide fatte di rilanci con poste sempre maggiori. Lo stesso Cameron, dopo aver incassato il successo del referendum scozzese, ha voluto quello sull’Unione e oggi l’intero regno da lui guidato ne paga pesanti conseguenze, che però non lo toccano più (almeno in prima persona). E lo stesso può dirsi di Johnson, impavido nell’affrontare la Brexit e l’emergenza pandemica, ma reticente nell’ammettere di aver strappato un divorzio costoso e soprattutto di aver ignorato le sofferenze dei britannici durante il periodo più difficile del lockdown, preferendo le feste private alla vita di clausura da lui stesso imposta.

Di fatto è sull’accountability, termine inglese con il quale si indica la capacità della politica di assumersi le proprie responsabilità, che si è andata riaprendo la ferita che da secoli accompagna le vicende di ciò che oggi è conosciuto come il Regno Unito; o sarebbe meglio dire disunito (come ha giustamente sottolineato Limes nella copertina del numero dedicato alla questione britannica). E visto che quello che non si risolve tende a ripresentarsi, spesso in forme più acute e radicate, oggi le Highlands sobbollono più vorticosamente rispetto al passato e quella secessione che nessuno vuole, né dentro, né fuori i confini del Regno, è sempre di più sulla bocca delle nuove generazioni, cresciute sulle promesse di una classe politica incapace di guardare oltre l’oggi e per questo soffocata in una crisi apparentemente senza via d’uscita.

Che sia questo il destino del luogo ove è nata la democrazia parlamentare? Scindersi in tanti Stati quanti sono gli errori, od orrori, commessi dai regnanti? Per Micheal Keating, “il Brexit ha dunque generato potenti effetti centrifughi nel Regno Unito. […] In Inghilterra, chi si è espresso per lasciarla (l’Ue) si sente molto più inglese che britannico e la maggioranza di questi elettori vede la secessione di Scozia e Ulster come un prezzo accettabile del Brexit”. Se questo è il sentimento che regna sulle terre disunite è difficile immaginare uno scenario futuro che non contempli una crescente pressione per un nuovo referendum indipendentista il cui esito si fa sempre più incerto e simile a quello che ha condotto oggi il Regno Unito fuori dall’Ue. Tuttavia, sorge spontanea una domanda: se il Regno Unito, ancora capace di contare qualcosa sul piano geopolitico ed economico, grazie ai legami del Commonwealth e della City, sta faticando così tanto a raggiungere l’indipendenza dall’Ue, quante chance avrebbe la Scozia, da sola contro il mondo, di riuscire nell’impresa di separarsi dalla sua principale fonte di sostentamento e di protezione? Chissà se Nicola Sturgeon abbia la risposta a questa domanda, oppure se anche lei stia giocando col fuoco come fece Cameron a suo tempo.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini