Luglio 22, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Il cielo d’Irlanda

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Il Cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce cantava Fiorella Mannoia; e chi, percorrendo i suoi verdi colli, potrebbe dire altrimenti alzando lo sguardo. Difficile, quindi, giustificare che in un tal palcoscenico naturale possa trovare spazio una questione, quella irlandese, tanto violenta quanto lunga. Sono almeno quattro secoli, infatti, prima ancora della nascita ufficiale della repubblica d’Irlanda (1949), che in questa terra si protrae uno degli scontri europei più importanti della storia moderna.

Era il 1609 quando il re Giacomo I Stuart lanciò la cosiddetta “piantagione dell’Ulster”, una vera e propria invasione di migliaia di contadini e briganti partita dall’isola britannica, direzione Nord Irlanda, con l’intenzione di colonizzare l’Eyre e renderla fedele alla corona. Ma nonostante l’intento violento, proseguito con attacchi alla cultura pastorizia autoctona per sostituirla con quella agricola, soppressione dell’identità gaelica, forzature di anglicizzazione (la cattolicissima Irlanda), l’Inghilterra non è mai riuscita ad assimilare completamente l’isola. In compenso, però, l’odierno Regno Unito era riuscito a mettere piede in sei contee dell’Ulster, dando vita alla conosciuta regione dell’Irlanda del nord. Un luogo di cittadini protestanti e unionisti molto legati alla corona britannica, per paura di essere spazzati via dai nazionalisti irlandesi e, come si può dedurre, molto odiati da questi ultimi, visti più come usurpatori che vicini di casa. E dal XVII secolo, di conseguenza, l’odio non ha fatto altro che alimentarsi tra queste due fazioni, rendendole sempre più pronte ad un’escalation di tensioni.

A partire dall’unione dei regni di Irlanda e Regno Unito (1800), che sanciva la fine dell’indipendenza irlandese, fino ad arrivare al “government of Ireland Act” (1921), che istituì un parlamento di autogoverno a Belfast per la gestione delle sei contee dell’Ulster, s’inasprirono oltremodo i nervosismi tra nazionalisti ed unionisti al confine. Nervosismi che non si conclusero nemmeno con l’indipendenza irlandese post Seconda guerra mondiale, considerando che i famosi troubles (1969-1998) ebbero la manifestazione più violenta negli anni ’70 dello scorso secolo. Il celebre accordo del Venerdì Santo di fine millennio, infine, coadiuvato dalla nascita del mercato interno europeo con conseguente libera circolazione delle merci e delle persone, sembrava quindi aver posto fine a questo percorso di sangue e terrore. Ma passò poco tempo e Brexit fece la sua comparsa sulla scena, ridando vigore ad un fuoco che non si era mai spento del tutto.

È forse allora banale ricordare che uno degli effetti più drammatici dell’uscita dell’UK dall’Unione Europea sia stata la potenziale rinascita di un confine netto tra i due stati irlandesi. Ma già nei primi momenti di negoziazione tra la Corona britannica e la UE fu palese ad entrambi le parti che non sarebbe stato possibile tornare alla situazione precedente l’accordo del Venerdì Santo senza conseguenze. Tesi condivisa anche dalla repubblica irlandese stessa. Quindi, prima di soffermarci su cosa fu allora deciso e su come quest’ultima decisione ebbe fin da subito un destino instabile, è interessante soffermarci su quanto i nordirlandesi fossero d’accordo o meno con Brexit, analisi che potrebbe sembrare più semplice di quanto la sia realmente.

Come riporta la BBC, nel referendum del 2016 la regione del Nord Irlanda si espresse contro l’uscita dalla UE con ben il 55,8%, superiore alla maggioranza inglese favorevole ad uscire (53,4%). In particolare, nel capoluogo Belfast si sono toccate percentuali del 70% per rimanere all’interno del mercato unico. Allo stesso tempo, però, nelle sei contee Ulster (quelle più britanniche) il risultato è stato l’opposto. Un esempio concreto di come la discrepanza tra cattolici/protestanti nella regione sia ancora una cartina tornasole per comprendere anche le divergenze politiche. Con l’avvio del processo di divorzio dalla Unione Europea, però, il sentimento di uscita si è ancora più affievolito, come del resto è capitato nel resto dell’UK. Una prova potrebbe anche essere l’andamento della popolarità dei partiti politici del Nord Irlanda.

Un sondaggio pubblicato a settembre, come afferma POLITICO, ha messo il DUP – per due decenni il primo partito dell’Irlanda del Nord – al quarto posto dietro altri due partiti unionisti. La sua popolarità non era così bassa dalla metà degli anni ’70, quando l’Irlanda del Nord era in uno stato di guerra civile e il DUP era una voce estremista esterna che chiedeva la distruzione dell’esercito repubblicano irlandese. Il crollo di quest’anno rispecchia le turbolenze interne senza precedenti del partito di come la Brexit si è rivelata per l’Irlanda del Nord. Il protocollo commerciale post-Brexit concordato dal governo britannico e dalla Commissione europea ha mantenuto l’Irlanda del Nord all’interno del mercato unico delle merci dell’UE, un risultato che rende più facile per le imprese locali gli scambi con la Repubblica di Irlanda che con il resto del Regno Unito. Che la perdita di fiducia verso il DUP sia effetto del protocollo firmato da Boris Johnson non è sicuramente certo ma alquanto probabile.

Ma che cos’è nello specifico questo protocollo d’Irlanda? Si tratta dell’accordo delicato tra UK e UE per i rapporti successivi a Brexit tra le due zone irlandesi. Non sorprende che questo agreement sia stato talmente difficile da trovare che l’anno scorso, allo scadere dei termini prestabiliti per evitare un Brexit dura e pura, abbia quasi fatto saltare il tavolo delle trattative. Il protocollo era stato pensato per evitare controlli tra l’Irlanda del nord (UK) e la repubblica irlandese (UE). Ma fin dai primi momenti della messa in pratica dell’accordo si sono visti i limiti concreti (già palesi sulla carta) di tale scelta. Tanto da richiedere subito una ridiscussione del testo da parte di Londra. Ma che cosa prevede questo accordo?

Come accennato, l’accordo prevede il mantenimento di confini aperti tra le due regioni come già stabilito nel patto del Venerdì Santo. Ciò comporta la mancanza di dogane al confine e di quindi controlli tra le parti. Se questo era facile quando sia UK che l’Eyre erano all’interno del mercato comune, risulta esserci un problema nel momento in cui le merci, i capitali (e di fatto le persone) sono soggette a regole tariffarie diverse, non più “comunitarie”. Per esempio, l’UE richiede che molti beni, come latte e uova, vengano ispezionati quando arrivano da paesi terzi, mentre alcuni prodotti, come le carni refrigerate, non possono entrare affatto. Di conseguenza, l’unica soluzione trovata è stata quella di spostare i controlli nel mare d’Irlanda con la conseguenza che di fatto l’Irlanda del nord si trovava all’interno del mercato unico europeo e separata (con dazi e tariffe anche molto pesanti) dal resto del Regno Unito. Già queste poche righe fanno capire la debolezza di un così siffatto accordo: è impensabile che una regione di uno stato paghi di più di un’altra regione dello stesso. Ma, in un primo momento, l’UK ha acconsentito.

Il premier Johnson stesso firmò l’accordo nel 2019 ma durante la campagna elettorale dello stesso anno promise che la Gran Bretagna non avrebbe mai svolto alcun controllo sulle merci in movimento tra UK e l’Irlanda del Nord. Bo-Jo, in una delle sue campagne elettorali di allora, affermava a Belfast: “Dovranno passare sul mio corpo prima di stabilire un confine nel mare d’Irlanda.” Ma questo primo anno di Brexit lo ha smentito. Come riporta l’ISPI: “dall’uscita del Regno Unito dall’unione doganale e dal mercato unico a 27 gli scambi commerciali con la Ue sono bruscamente diminuiti. Dopo un iniziale crollo (-40,7% delle esportazioni verso l’Ue e -29% delle importazioni dall’Ue tra dicembre 2020 e gennaio 2021), la bilancia commerciale sta recuperando, ma secondo gli economisti è ben lontana dal raggiungere i livelli pre-Brexit”. Adesso Londra accusa l’UE di applicare in modo troppo rigido il protocollo, ma verba volant, scripta manent.

Sulla stessa linea del premier, il ministro della Brexit, Lord Frost ha presentato proposte per modificare il protocollo: l’eliminazione dei controlli doganali tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord e l’affidarsi alle imprese per essere “onesti” su ciò che stanno facendo. Parole che per il momento sono state rispedite al mittente dalla commissione europea e si può intuirne il motivo.

L’UE ha affermato che una rinegoziazione del testo del protocollo è fuori discussione. Ed ha insistito sul fatto che “entrambe le parti sono legalmente tenute ad adempiere ai loro obblighi ai sensi dell’accordo”. Allo stesso tempo, però, ha presentato proposte che, a suo dire, porterebbero a una riduzione dell’80% dei controlli necessari sui prodotti alimentari in arrivo nell’Irlanda del Nord, oltre a dimezzare la quantità di pratiche burocratiche coinvolte. Per esempio, un camion in arrivo dalla Gran Bretagna che trasporta un carico di diversi prodotti alimentari di allevamento avrebbe bisogno di un solo certificato, anziché di uno diverso per ogni prodotto. L’UE propone inoltre una riduzione delle informazioni doganali che le imprese devono fornire e afferma che intende approvare una normativa per consentire il proseguimento del commercio di medicinali tra UK e Nord d’Irlanda. In cambio, l’UE vuole ulteriori salvaguardie per impedire che i prodotti provenienti dal Regno Unito attraversino la Repubblica d’Irlanda. Ma come succede nel gioco dell’oca, si torna quindi al punto di partenza, cioè il rischio che l’accordo del Venerdì Santo venga tradito.

Il governo britannico ha affermato che “esistono circostanze” per giustificare l’uso dell’articolo 16 del protocollo. Ovvero una deroga che consente a entrambe le parti di sospendere qualsiasi parte dell’accordo che causi “difficoltà economiche, sociali o ambientali”. Ma l’articolo 16 non elimina del tutto il protocollo. Il Regno Unito afferma che non lo attiverà prima di avere colloqui con Bruxelles, ma Lord Frost ha detto alla conferenza del Partito Conservatore che l’attivazione dell’articolo 16 potrebbe essere “l’unica strada” per andare avanti. La decisione del Regno Unito di utilizzare l’articolo 16 potrebbe indurre l’UE a rispondere con misure che impongano tariffe (o tasse di importazione) su aspetti del commercio tra le due parti. In breve, un disastro.

Tutto questo per dire che la partita del Nord Irlanda è tutt’altro che chiusa. L’accordo trovato sembra più una pezza per guadagnare tempo che un modo per risolvere una questione secolare. Interessi economici, spinte popolari, questioni sociali e mosse geopolitiche sono un miscuglio esplosivo che neanche anni di negoziazioni da parte delle più alte cariche istituzionali europee sono riusciti a disinnescare. Tutte le opzioni sono ancora sul tavolo, ma trovarne una che possa andare bene a tutti sembra pressoché inesistente.

Roberto Biondini e Claudio Dolci