Luglio 26, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

La direttiva europea sul salario minimo ha scatenato nel dibattito italiano una vera e propria tempesta perfetta, con tanto di alleanze spurie (come quella tra i sindacati e Confindustria) e rari esempi di benaltrismo sull’inutilità di una qualsivoglia soglia reddituale di base. C’è stato infatti chi, come Bonomi, ha proposto il taglio del cuneo fiscale, e quelli che invece se la sono presa con la produttività, con la necessità di ridare valore alla contrattazione collettiva e infine con l’inflazione.

Ed in questo caos, dove non poteva non mancare il sempre verde “ce lo chiede l’Europa”, si sta finendo per perdere di vista il senso di un salario minimo e il problema dei redditi in Italia, in favore della più bieca propaganda da campagna elettorale permanente.

Fake news e propaganda sul salario minimo

Innanzitutto, l’Ue ha per ora stabilito un accordo preliminare, come ricorda Cottarelli su La Stampa, per “definire, e solo per i Paesi che hanno già un salario minimo, alcuni criteri per la sua determinazione”: con questa sola frase si smontano le fake news di chi grida da giorni “ce lo chiede l’Europa” (come la sottosegretaria al Ministero del Lavoro Rossella Accoto). Cottarelli inoltre, sottolinea a più riprese come un intervento a gamba tesa da parte dello Stato nella determinazione di un salario minimo non escluda comunque la presenza di sacche di lavoro dove questo non venga adottato, e il rischio aggiuntivo che alla fine la pezza sia peggio del buco. D’altronde, l’Italia resta un Paese diviso, con redditi e costi della vita assai differenti lungo tutto lo stivale, e quindi andrebbe studiata una soluzione che tenga conto di questa divisione. Per Perotti e Boeri, ad esempio, si potrebbe resuscitare un meccanismo analogo a quello delle gabbie salariali, ma legato alla produttività, con un salario minimo nazionale tarato sulla situazione economica del Sud del Paese e un altro per il Nord. Resterebbe però poi sempre da risolvere il problema del lavoro nero, che, com’è probabile, permetterebbe comunque l’adozione di tariffe ben inferiori rispetto a quelle stabilite da qualsivoglia salario minimo (come già ampiamente dimostrato dal caporalato).

Sorge quindi il problema di stabilire l’efficacia di un salario minimo e il suo valore nominale. Per quest’ultimo l’Ue, almeno in questa prima fase preliminare, fissa delle coordinate; come riportato da Luciano Capone sul Foglio “la Commissione indica (per il salario minimo) la soglia del 60 per cento del salario mediano in Germania, al momento, il salario minimo orario da 9,82 euro è pari al 48 per cento del salario mediano. Il governo Scholz lo porterà a 12 euro l’ora, pari al 58 per cento del salario mediano. Per l’Italia 9 euro l’ora significano un salario minimo pari al 75-80 per cento del salario mediano, il livello più elevato tra i paesi Ocse.” Capone nomina i 9€ lordi all’ora perché è la cifra su cui si è discusso di più in questi mesi, anche se per l’attuale ministro del Lavoro, Andrea Orlando, la questione andrebbe differenziata caso per caso. Su Repubblica ha dichiarato che si dovrebbe “prendere come salario minimo il Trattamento economico complessivo (Tec) dei contratti maggiormente rappresentativi, settore per settore.” Ed è qui che si arriva all’alleanza spuria tra Sindacati e Confindustria, che, per ragioni differenti, propenderebbero per altre soluzioni contrarie al salario minimo. I Sindacati rivendicano la centralità della contrattazione collettiva nazionale, che in Italia rappresenta il mezzo più diffuso per stabilire il reddito di un lavoratore. Stando agli ultimi dati aggiornati, in Italia la contrattazione collettiva copre l’80% dei lavoratori (si parla di 985 contratti collettivi nazionali), di cui però buona parte è in scadenza, ed inoltre quando si parla di numeri c’è sempre chi tende a gonfiarli e sgonfiarli a seconda dell’opportunità. Bonomi, invece, sul Corriere fa sapere che “va bene (un salario minimo) ma solo per i lavoratori più fragili, dove le paghe orarie sono basse; non è il caso dei contratti nazionali firmati da Confindustria.”

Il mercato del lavoro italiano

D’altronde, di quei oltre 900 contratti (del solo settore privato), stando a quanto riportato da Valentina Conte su Repubblica, 558 sono scaduti e altri 95 scadranno entro l’anno. Ne consegue che a conti fatti ci sono attualmente 6,8 milioni di lavoratori che aspettano il rinnovo di un contratto e, di questi, 3,5 milioni riguardano il settore del Turismo e del commercio. Se poi si analizzano i dati della pubblica amministrazione, come dichiarato da Bonomi, si scopre che i privi di rinnovo sono quasi 3 milioni. Infine, se a questi dati si aggiunge poi l’esercito di coloro che hanno una partita iva, si arriva alla conclusione che i contratti ci sono, sulla carta, ma che nella realtà sono perlopiù scaduti e non sempre aggiornati a un’inflazione che oggi tocca il 6,8%. Trattandosi di numeri, però, c’è sempre un margine di incertezza che permette di sostenere tutto ed il suo contrario. Stando infatti a quando riportato dal ministro Renato Brunetta sul Corriere, “su 1.000 contratti depositati, sono solo 419 i contratti collettivi nazionali effettivamente utilizzati e appena 162 quelli sottoscritti da Cgil-Cisl-Uil. Ma — questa è l’omissione grave — questi 162 accordi coprono 12,5 milioni di lavoratori dipendenti, pari al 97% del totale dei 12,9 milioni di rapporti di lavoro dichiarati nelle comunicazioni Uniemens all’Inps.” Quindi? Da che parte sta la verità?

Difficile a dirsi, perché tutti hanno l’interesse a sostenere una posizione che avvantaggi le proprie istanze e a farne le spese, come sempre, è la chiarezza dell’informazione. Se davvero i contratti nazionali fossero tutti rispettati e in linea con un costo della vita in ascesa, il problema del salario non si porrebbe, o avrebbe comunque un impatto ridotto, ma nella realtà il mercato del lavoro è un guazzabuglio di contratti pirati, di retribuzioni in nero e violazioni palesi di quanto stabilito per legge. Ad esempio, come documentato da Report, ci sono giornalisti che pur avendo un tariffario stabilito a livello nazionale percepiscono qualche euro ad articolo e si parla di una categoria protetta, almeno teoricamente, da un albo, figurarsi le altre professioni.

E nell’inchiesta a firma di Stefano Iannaccone per Domani, si scopre come ci sarebbero 2.596.000 di lavoratori privati che percepiscono un salario orario inferiore agli 8€ e stando ai dati Eurostat, in Italia il 12,,2% degli occupati è a rischio povertà (la media Ue è 9.4%). Ed è per proteggere queste categorie, a cui si somma quella miriade di stagisti, di tirocinanti e di collaboratori co.co.co, che avrebbe senso introdurre una misura di reddito che consenta di condurre una vita almeno dignitosa. Tuttavia, com’è evidente, il problema è molto più complesso di quanto le partigianerie degli schieramenti chiamati in causa vorrebbero far credere. Se infatti si approvasse un tetto salariale minimo troppo elevato, si comprometterebbero tutti quei lavori che si accompagnano a basse qualifiche e bassa produttività. Se invece si optasse per non introdurre nulla, si manterrebbe l’attuale status quo, fatto di precarietà e paghe da fame.

Soluzioni troppo semplicistiche

Tra le soluzione sul tavolo, c’è chi, come Confindustria, propone una riduzione del cuneo fiscale (un intervento da 16 mld di euro per i redditi sotto i 35.000€) e chi invece sostiene che la causa del basso reddito sia da imputare all’altrettanto scarsa produttività. Tuttavia, entrambe queste posizioni costruiscono la loro narrazione solo su alcuni fattori escludendone altri di pari, se non maggior, importanza. Si prenda ad esempio la misura del taglio del cuneo fiscale, come riporta Michele Prospero sul Riformista, “In Francia e in Germania le tasse sul lavoro sono più elevate di quelle italiane e però i salari sono ugualmente cresciuti del 30%.” Di conseguenza l’equazione tasse basse uguale reddito in crescita è tutto fuorché una regola standard. Negli ultimi 30 anni il reddito italiano è calato (-2,9%), mentre in tutta Europa è cresciuto, anche là dove le tasse erano più alte. C’è quindi chi ha accusato la bassa produttività, cresciuta solo del 10% (sempre nel medesimo arco temporale), ma anche qui, come sottolinea l’economista Innocenzo Cipolletta, su Domani, “la bassa produttività deriva dalla bassa crescita e non viceversa.” Ad un calo della crescita si accompagna una bassa produttività e per migliorare la prima occorrono investimenti, soprattutto in un Paese, l’Italia, in cui è la piccola media impresa ad essere così diffusa; la stessa PMI che però spesso non sa che farsene di lavoratori troppo istruiti e che fatica ad investire.

E per quanto riguarda i tassi di crescita del Pil non c’è partito, né istituzione, che possa dirsi priva di colpe. Dagli anni ’90 ad oggi è mancato un qualsivoglia tipo di piano generale capace di scardinare le corporazioni, come dimostra anche l’attuale crisi sul Ddl Concorrenza, e la necessità di passare da una tassazione del lavoro a quelle delle rendite (in Italia assai numerose). Sono poi mancati investimenti sulle infrastrutture, sull’istruzione e una vera riforma del mercato del lavoro capace di cancellare la selva di contratti pirati che ancora girano (qualcuno ricorda per caso i voucher?). Ed in gran parte le ragioni di così tanta inconcludenza sono da ricercarsi in un debito ingestibile e in quella sfilza di maggioranze traballanti che tuttora persistono. Di fronte a questa situazione, e tenuto conto del tasso di evasione presente in Italia, pensare che l’introduzione di un salario minimo possa fungere da panacea risulta quanto meno demagogico, così come lo è fare del benaltrismo e tirare in ballo il taglio delle tasse e il problema della produttività.

Ed il nocciolo della questione forse è proprio questo: invece di cercare di capire in che modo la direttiva dell’Ue possa davvero aiutare chi non arriva a fine mese, si è innescato il consueto dibattito tra istituzioni, partiti e corpi intermedi sempre intenti a tirar l’acqua verso il proprio mulino. Col rischio concreto che quei 9€ servano solo per dire “l’abbiamo fatto noi”, oppure per volgere l’attenzione altrove, mentre il salario minimo, come ha detto Ignazio Visco stesso, se ben studiato, potrebbe aiutare quanto meno a risolvere alcuni dei problemi del mercato del lavoro italiano.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini