“Del doman non c’è certezza”: così cantava De Medici, nel ‘400, per sublimare la giovinezza e i suoi frutti. E chissà se il politico fiorentino avrebbe utilizzato una simile canzona anche per descrivere i tempi odierni, ove tutto appare incerto. Sicuramente, anche se in modo improprio, è alle sue parole che stanno pensando i vertici delle istituzioni di politica monetaria mondiale, i quali, canticchiandole nelle proprie menti, scrutano i dati alla ricerca di qualche indizio.
D’altronde, nell’articolo l’aumento dei prezzi travolge la società del just in time avevamo già affrontato la tematica dell’ascesa dei prezzi, soffermandoci sui beni energetici, i fattori legati alla pandemia, quelli dell’innovazione green ed infine sugli scontri geo-politici in atto un po’ ovunque. E già in quell’analisi era emersa tutta la complessità nel comprendere la ragione effettiva della crescita dell’inflazione nell’ultimo periodo, tant’è che, a quanto sembra dalle ultime dichiarazioni istituzionali, tutti faticano a predire per quanto tempo questa perdita di potere d’acquisto ci farà compagnia.
E’ in questa ottica si muovono le maggiori banche centrali (FED e BCE in testa), le quali, qualche giorno fa, hanno parlato alla stampa a seguito della consueta riunione dei vertici sulle possibili strategie da utilizzare nei prossimi mesi per mantenere valido il loro obiettivo di controllo dei prezzi e di piena occupazione (quest’ultimo valido solo per l’ente americano).
Partendo proprio da quest’ultimo, il governatore Powell sostiene che l’attuale dinamica di aumento dei prezzi non possa essere più considerata una fiammata temporanea, o quanto meno, i dati odierni dimostrano che l’attuale impennata sia molto alta e che possa durare di più del previsto: una sorta di fuoco, circoscritto, ma ancora ben vivo. Come riporta la Repubblica: “I prezzi al consumo negli Stati Uniti sono saliti del 6,8% annuo a novembre: dato in linea con le aspettative degli analisti, ma che nulla toglie al fatto che sia il maggior aumento dal 1982 e una spinta ulteriore dopo il +6,2% di ottobre.” E in rialzo ci sono anche le aspettative future dell’inflazione, come riporta ilSole24Ore: “2,6% nel 2022, dal 2,2% indicato a settembre, ma 2,3% nel 2023, dal 2,2% a settembre e 2,1% nel 2023.”
Se poi si sommano questi dati alla considerazione di Powell, si può comprendere come questo aumento dei prezzi non sia più ormai legato esclusivamente al mercato dell’energia, ma stia letteralmente contagiando un paniere di beni ben più ampio: dai prezzi delle auto (+31,4% annuale per i veicoli usati), ad esempio, agli affitti (+3%) e al mobilio (+6%); inoltre, i sondaggi sul tema hanno evidenziato i danni che questi incrementi comporteranno soprattutto per le piccole e medie aziende.
Ed in tal senso, se questo aumento tendenziale risultasse sostenuto nel tempo, allora le azioni della FED di ridurre gli stimoli monetari nel mercato sarebbero più che giuste. Washington è pronto a ridurre gli acquisti di titoli di Stato, da gennaio, di 20 miliardi di dollari al mese (un ritmo di acquisto doppio rispetto a quello deciso a inizio novembre) raggiungendo quota zero a marzo. Una riduzione che comunque Powell definisce graduale, mantenendo i tassi d’interesse bassi, allo 0-0,25% fino a quando il tasso di disoccupazione non tornerà a livelli coerenti con la definizione – non esplicitata però in un obiettivo – di massima occupazione. Ma che probabilmente, si normalizzeranno in tre anni. Di fatto la Fed sta attuando manovre di contenimento dell’inflazione e allo stesso tempo sta avvertendo i mercati che tassi così bassi non dureranno a lungo, anzi.
Cosa succede invece in casa BCE? Flessibilità ed opzionalità sono queste le due parole più utilizzate. Infatti, da questa parte dell’atlantico si continua a pensare che l’inflazione (più bassa rispetto ai cugini americani) resti un fenomeno tutto sommato temporaneo. Ed effettivamente la UE negli ultimi anni è stata terra di bassa inflazione costante, lontana dall’obiettivo dell’2% voluto e dovuto per statuto da Francoforte, il che avvalla l’azione di cautela della banca centrale europea. Inoltre, la fiammata inflazionistica odierna è sì alta, ma non esorbitante: tant’è che le ultime proiezioni sull’inflazione, per quanto più elevate rispetto a settembre, prevedono un +2,6% medio nel 2021, un +3,2% nel 2022 (in gran parte legato ancora ai rincari sui prezzi dell’energia) e un 1.8% – «che non è il 2%», ha detto Lagarde – nel 2023 e 2024. E su questi dati si poggiano sia le dichiarazioni di Lagarde stessa, sia le scelte concrete effettuate in campo monetario: infatti, se da un lato il PEPP si concluderà a marzo 2022, dall’altro la Bce ha però esteso il piano di reinvestimenti, il quale durerà fino alla fine del 2024 (e non più alla fine del 2023). Il piano di reinvestimenti, inoltre, resterà flessibile rispetto ai criteri del Quantitave Easing classico, al punto da comprendere anche i titoli della Grecia (i quali però, al momento non avrebbero ancora raggiunto i requisiti per rientravi), il tutto per evitare che l’economia ellenica sia danneggiata durante la ripresa dopo il Covid. Per non parlare poi del mantenimento dei tassi d’interesse schiacciati sullo 0 ancora per tutto il 2022. In breve, l’Europa è più preoccupata di soffocare la ripresa post pandemia rispetto che avere un’inflazione fuori controllo, la quale, al momento, non sembra incombente e così minacciosa com’è invece negli Usa. “Se le pressioni sui prezzi si trasferiranno in aumenti salariali più elevati di quanto anticipato o l’economia torni più rapidamente alla piena capacità, l’inflazione potrebbe rivelarsi più elevata.” La Bce rimane comunque pronta ad eventuali cambi di rotta. Da un punto di vista storico, la cautela della BCE ha una sua logica: infatti, tutti gli appassionati del tema inflazionistico si ricorderanno di quando l’allora presidente BCE Trichet aumentò i tassi d’interesse troppo e in modo precipitoso, facendo così cadere l’euro zona nella recessione e nella deflazione.
Ma da un punto di vista pratico cosa significano queste prese di posizione non perfettamente sovrapponibili delle due banche centrali più importanti del mondo? Che i mercati siano diversi tra loro? O che le parti stiano ancora un po’ brancolando nel buio in ricerca di risposte? Accademicamente parlando, si sa che l’unica cosa da evitare in campo monetario è l’incertezza. L’incertezza crea paura, timore e poca fiducia da parte di tutti gli operatori economici. Poca fiducia si riflette in meno investimenti sul futuro e, a cascata, ha tutti quegli effetti descritti nella nostra rubrica sull’Inflazione. Sembrano parole filosofiche ma, come abbiamo descritto, sono più che mai pratiche per la società. Sapere se domani l’inflazione sarà alta o bassa, costante o temporanea, è fondamentale per gli attori del mercato che devono decidere come utilizzare i propri soldi. E l’ultima cosa che ci vuole in un periodo di tanta sfiducia dovuta alla pandemia, è non sapere dalle istituzioni cosa fare.
Per ora, i mercati finanziari hanno reagito bene, senza troppi scossoni alle scelte delle Banche Centrali, segno che sicuramente aspettavano un cambio di passo dagli istituti centrali. Che questo voglia dire “sicurezza” è tutt’altro che certo. Gli istituti dovranno dare più rassicurazioni nel futuro se vorranno ottenere una crescita sostenuta. Ed è quantomai vero che, al momento, nessuno abbia in mano la sfera di cristallo per anticipare il futuro, ma commettere errori in questa fase è così facile che nessuno è disposto a correre rischi. D’altronde, anticipare un aumento dei tassi senza aver consolidato la ripresa comporta un rischio analogo a quello di lasciar correre l’inflazione con la possibilità che da un fuocherello ci si ritrovi a dover domare un’Amazzonia in fiamme. E al momento l’unico punto di partenza stabile è che tutto, dalle catene di valore al modo di viaggiare e concepire la globalizzazione, sta cambiando e probabilmente non tornerà tanto facilmente alla situazione iniziale.
Roberto Biondini e Claudio Dolci
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