Luglio 27, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Il polo finanziario: la sfida del futuro

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Il primo gennaio scorso iniziò la trasformazione della City di Londra. Da sempre un polo di attrazione per la finanza mondiale, in virtù della libera circolazione dei capitali, con la Brexit la City ha dovuto cambiare molte cose, dall’accesso ai suoi principali clienti a un radicale ripensamento della propria posizione nel mercato globale. Com’è risaputo, infatti, il governo di Boris Johnson intavolò la contrattazione con Bruxelles concentrandosi principalmente sul commercio e sulla questione irlandese, invece che puntare sui servizi finanziari: una scelta, questa, che generò un grande disappunto da parte degli operatori della City. Tant’è, come riporta l’AGI, che i lavoratori della galassia finanziaria sottolinearono, già all’epoca della trattativa, come il Regno Unito sembrasse avere più a cuore la pesca al merluzzo, che rappresenta lo 0,1% dell’economia britannica, rispetto agli interessi finanziari, i quali da soli pesano per il 10% del bilancio UK. Un vero e proprio cortocircuito ideologico, di cui lo stesso Johnson si rese conto, ma a contratto ormai firmato, trovando insoddisfacenti le condizioni strappate a Bruxelles. E ad oggi non sembra esserci alcuna pezza sufficientemente ampia per tappare lo strappo dall’Unione europea. Secondo l’Institute of Government, infatti, un futuro accordo di equivalenza, attraverso il quale entrambe le parti accettino il regime normativo dell’altra, sembra improbabile. Il cancelliere Rishi Sunak lo ha affermato anche in un discorso alla Mansion House, l’estate scorsa, annunciando un piano per mantenere e migliorare il vantaggio dei servizi finanziari del Regno Unito: “Ora abbiamo la libertà di fare le cose in modo diverso e migliore, e intendiamo sfruttarla appieno“. Un intento lodevole, ma al quale mancano i fatti a fare da corollario.

Per capire appieno la situazione occorre riavvolgere un attimo il nastro del tempo a prima della Brexit. All’epoca le società finanziarie britanniche avevano un passaporto che gli consentiva di concedere un prestito a una azienda di Parigi o negoziare l’acquisto di obbligazioni per un cliente a Madrid senza alcun problema. A partire da gennaio scorso, invece, le compagnie targate UK hanno iniziato ad operare in Europa attraverso un complesso regime di equivalenza, lo stesso a cui si attengono le aziende di paesi come Stati Uniti e Giappone. E nell’accordo dello scorso dicembre (2020), si era deciso che Bruxelles avrebbe potuto ritirare questi permessi quasi senza preavviso, andando così a impattare pesantemente su aree economiche chiave per la City di Londra, come le banche commerciali e parte del settore assicurativo. Queste nuove barriere imposte dell’Unione sono state innalzate tra la City e un mercato che da solo rappresenta un quarto delle sue entrate annuali – tra 44 e 60 miliardi di euro – secondo la società di consulenza Oliver Wyman. In questo quadro emerge con chiarezza la divergenza tra le regole di Londra e quelle di Bruxelles. Una distanza che nei fatti ha separato ancor di più le due sponde della Manica e non ha fatto altro che frammentare inutilmente i mercati finanziari europei, inducendo molti analisti a chiedersi se sia o meno finita l’età dell’oro della City.

Dopo tutto, da quando la Brexit è diventata una realtà concreta, le istituzioni europee non hanno più potuto usare la City per le proprie operazioni finanziarie e gran parte di quelle contrattazioni si sono trasferite ad Amsterdam, obbligando Londra a ridimensionare i propri introiti. Lasciando il mercato comune, infatti, la capitale britannica ha così perso, dalla sera alla mattina, ben sei miliardi e mezzo di euro di contrattazioni. Per essere ancora più precisi, stando ai dati di TheCityUK e ripresi dal Financial Times, nel 2020 il Regno Unito ha esportato il 6,6% in meno di servizi finanziari verso il Vecchio Continente, raggiungendo così quota 24,7 miliardi di Sterline. Nello stesso periodo, però, l’export di servizi finanziari verso Paesi non-UE è cresciuto del 4,1% raggiungendo il valore di 57,7 mld di Sterline, garantendo al Regno Unito una sorta di stabilità del mercato finanziario. Tuttavia, la gara per mantenere il potere finanziario della City di Londra è tutt’altro che vinta, tant’è che è la stessa Anjalika Bardalai, chief economist di TheCityUK, a parlare di “rischio di tenuta” per il tempio degli affari londinese. Il pallino ora è nelle mani del governo inglese, il quale deve garantire regole che stimolino la competitività e permettano alla City di restare al terzo posto come principale centro finanziario del mondo: basti pensare che nella prima metà del 2021 le attività del solo settore bancario inglese ammontavano a 10,3 trilioni di Sterline (quasi 5 volte il debito italiano).

A conti fatti, dopo la Brexit, la City ha gradualmente recuperato il tenore delle contrattazioni finanziarie e a giugno, per la prima volta nell’era post-Brexit, è ritornata ad essere persino l’hub finanziario più importante del Vecchio Continente. Il tutto grazie a una serie di cambiamenti nelle normative finanziarie, progettati dal cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, i quali mirano a renderla ancora più competitiva, rilassando le regole che esistevano quando ancora la Gran Bretagna apparteneva alla Ue. L’obiettivo di Sunak è quello di trasformare Londra in una Singapore-sul-Tamigi, una sorta di paradiso fiscale e isola ultraliberista alle porte dell’Europa. Che questo si realizzi non è impossibile, ma nel qual caso capitasse, una Londra off-shore farà sicuramente alzare i toni del dibattito con i Paesi europei, anche se il rischio che si riveli tutto fumo e niente arrosto c’è.

In parte perché i paradisi fiscali esistono da sempre. Il Regno Unito stesso ha potuto beneficiare per anni, com’è tuttora, dello stato speciale delle Isole Vergini, che da sole rappresentano i tre quarti dei casi segnalati dai Pandora Papers. In Europa, inoltre, ci sono Paesi come il Lussemburgo che godono di aliquote “agevolate”, così come l’Olanda stessa, dove, non a caso, si sono trasferite diverse aziende che prima della Brexit avevano la sede a Londra. Infine, quando ancora la City era sotto il cappello dell’Unione, le banche londinesi si prestavano a trasferimenti di denaro per conto di soggetti terzi, come nel caso del pozzo petrolifero OPL245. In breve, al di là di un possibile futuro iper-lassista da parte di Londra, occorrerebbe che l’Unione si concentrasse maggiormente su tutte quelle operazioni finanziarie che per anni hanno drenato soldi ai vari sistemi fiscali europei per trasferirli là dove si è scelto di lasciar correre per ragioni mai davvero specificate.

Ad ogni modo, dopo che il Regno Unito ha lasciato il mercato unico dell’UE, lo scorso anno, quest’ultima ha dichiarato la volontà che le banche internazionali con sede a Londra operassero nel Vecchio Continente per gestire le attività che avvengono da questo lato della Manica. La Banca centrale europea, inoltre, ha anche spinto le banche a trasferire più personale dal Regno Unito all’UE. E su questo punto il commissario europeo per i servizi finanziari Mairead McGuinness ha affermato, come riporta Bloomberg, che la dipendenza dell’Europa dall’infrastruttura di compensazione britannica “non è sostenibile” e che la Commissione europea continuerà a lavorare per incoraggiare la migrazione di tale attività nel Continente. Anche se, come osserva Livio Bossotto, partner e responsabile del Team Employment di Allen & Overy Italia, su la Repubblica, il flusso delle banche d’affari, che stanno ricollocando personale da Londra ad altri uffici in Europa “è stato e continua a essere molto graduale, sia perché il processo può richiedere tempo e risorse, per ragioni regolamentari, sia perché la scelta della sede più opportuna non è sempre agevole, basandosi su valutazioni non solo in termini di infrastrutture, ma anche di benessere sociale e qualità della vita. Non c’è stata una revisione organica delle strutture londinesi, ma sono state individuate soluzioni più leggere, sia perché sinora la regolamentazione lo ha consentito, sia a causa della pandemia“. Riguardo a quest’ultima poi, qualcuno ha suggerito come l’azione dei banchieri londinesi sia stata dettata proprio dal desiderio di tornare a casa dopo i momenti difficili legati all’emergenza. Quando però finirà la pandemia, ci si aspetta una ripresa dei “traslochi” da parte di Londra. E ad oggi, secondo un recente report di EY, si stima che sarebbero 7400 i posti di lavoro persi finora nel settore finanziario londinese a causa della Brexit. Di questi, stando a Bloomberg, la maggior parte sarebbero migrati a Dublino e Parigi, anche se per vedere con più completezza gli aspetti di migrazione legati all’Hub finanziario della City sarà necessario ancora del tempo.

D’altronde, abbiamo già visto come le diatribe insorte durante la Brexit siano andate ben oltre quanto stabilito dalle carte firmate dalle due parti in causa, e molto verrà ancora dibattuto, posticipato e forse mai davvero affrontato anche nei prossimi mesi, più probabilmente anni. E da questo punto di vista è evidente, vista la mole di denaro che transita dalla City, come la gestione del centro finanziario londinese faccia gola a molti e allo stesso tempo sia difeso con i denti dal governo britannico. C’è infatti chi ha letto nell’agire di Johnson una certa malizia volta a trascurare appositamente le finanze, poiché insostituibili anche per l’Unione, in favore della pesca, un tema questo, assai meno fondamentale per le parti in causa e sul quale poter accaparrare un po’ di consenso in patria. Ed ora che il merluzzo è in salvo, e con esso lo 0,1% del Pil, il governo di Downing Street si può concentrare sulla partita più importante e che mira a mantenere la City come faro per tutti quei capitali stranieri che cercano un luogo con poche regole ove operare in penombra. Non è quindi un caso che oggi sia Londra, sia Bruxelles, cerchino il più possibile di tirare acqua al proprio mulino senza escludere colpi bassi, poiché in palio ci sono miliardi di euro e, almeno per i Britannici, vi è la più grande chance per dimostrare la bontà della Brexit.

Roberto Biondini e Claudio Dolci