Luglio 27, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Lo stage è un lavoro!

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Chi pensa che studiare costi non conosce il prezzo dell’ignoranza, eppure c’è ancora chi considera la conoscenza un ostacolo al mondo del lavoro e pretende chi i neodiplomati e i neolaureati lavorino gratis; così da redimere il loro peccato originale, quello di aver scelto un libro invece di aver imboccato sin da subito la più istruttiva scuola dell’azienda. Ed è forse per questo che chiunque abbia fatto l’università conosce la frustrazione degli stage non retribuiti e la difficoltà nell’uscire dal vortice degli internship e di tutti quegli altri anglicismi che si potrebbero tranquillamente tradurre in italiano attraverso l’etichetta: lavoro gratis.

È ormai da tempo, infatti, che si è andata strutturando l’idea di fondo che l’esperienza dello stage sia già di per sé un guadagno per lo studente (o neolaureato), il quale ha così la possibilità di tradurre in pratica quanto studiato sui libri. Di conseguenza, l’assenza di qualunque forma di “introito” per lo stagista rappresenta già, almeno nella mente del datore di lavoro, il bilanciamento delle spese a carico delle imprese. In realtà, questa retorica malata nasconde sia l’incapacità di quelle imprese di comprendere il valore della conoscenza teorica (e purtroppo non solo quella), sia la volontà di approfittare di mano d’opera a basso costo. Ovvio, il sistema scolastico ha le sue colpe, reo di adottare ancora prassi di inizio Novecento per una società assai più fluida e incapace di anticipare il futuro (piuttosto lo insegue). Tuttavia, è lampante il fatto che per inserire dei dati al computer o rispondere al telefono non vi sia un ciclo di studi più specifico rispetto ad un altro, e che purtroppo, il solo fatto di essere etichettati con il prefisso neo (assunto, diplomato o laureato) equivalga a dire non retribuito; anche se, magari proprio nell’ufficio a fianco, c’è chi per lo stesso lavoro riceve uno stipendio ed ha pure un contratto un tempo indeterminato. Tutto ciò non può che essere chiamato col suo nome: sfruttamento.

Non c’è pateticità in questa definizione, anzi, si manifesta solo in modo esplicito una pratica tanto abusata quanto sottovalutata dalle istituzioni. Vi è coscienza, in chi scrive, che lo stagista non possa di per sé sostituire un lavoratore con esperienza, ma vi è anche la consapevolezza, data dalle statistiche, che oltre a non ricevere un salario e persino un rimborso spese adeguato, buona parte degli stage si conclude con un rimpiazzo dello stagista con un altro, così da garantirsi sempre nuove leve a costo zero. Certo, è un ottimo sistema per abbassare il costo del lavoro, ma senza l’occupazione giovanile (oggi un giovane su tre è disoccupato) è inverosimile pensare che l’attuale sistema previdenziale (ancora azzoppato dalle pensioni retributive e miste) possa reggersi da solo.

Esistono poi dei problemi di natura più tecnica, i quali hanno a che vedere con l’inclusione dello stagista nell’impresa e la sua motivazione. D’altronde, anche nella circostanza in cui non fosse chiaro che uno stagista non retribuito deve per forza fare affidamento ai propri risparmi se non, molto più facilmente, a quelli dei propri genitori, come si fa a non comprendere che un soggetto privo di uno stipendio sarà sempre meno produttivo rispetto a uno che invece lo riceve?

Da Maslow agli studi sul rapporto tra motivazione intrinseca ed estrinseca, si sono costruiti molteplici modelli sul senso del lavoro e sul ruolo della retribuzione. Ed oggi, la psicologia cognitiva, attraverso l’Ultimatum Game, ha dimostrato come esista un limite che quasi nessuno è disposto a oltrepassare. In questo gioco ci sono due attori: il primo ha disposizione una somma di denaro e la deve dividere, come meglio crede, con un altro soggetto, il quale ha la facoltà di accettare o meno l’offerta. Se l’accetta i soldi vengono ripartiti tra le parti così come stabilito dall’offerente, altrimenti nessuno dei due riceve nulla. Ecco, nonostante la logica stringente della teoria normativa riguardo la razionalità umana, esistono offerte che cadono letteralmente nel vuoto, poiché non ritenute eque. Nonostante ricevere soldi dovrebbe sempre essere meglio che non ottenerne affatto, l’essere umano rifiuta quelle offerte che ritiene ingiuste e non si vede perché tale principio non debba essere applicato anche al mondo del lavoro e agli stage.

Non si può far certo di tutta l’erba un fascio, esistono migliaia di realtà che inseriscono il personale in modo giusto ed equo, ponderando la qualità dell’individuo alle necessità dei costi che un’azienda deve sostenere per un nuovo lavoratore. Ma come tutti sanno, occorrerebbe utilizzare un po’ di buon senso e non far finta che l’utilizzo improprio del lavoratore non sia una realtà fin troppo presente.

Ed è per far fronte a questa ignobile pratica che sono ora stati finanziati dei fondi pubblici, anche di natura comunitaria, per rendere meno gravoso l’inserimento di giovani ragazze e ragazzi nel mondo del lavoro: erasmus + è, ad esempio, un progetto dell’Unione Europea volto a rimborsare le settimane degli stage svolti su suolo comunitario, con l’idea di rendere più vantaggioso il percorso di formazione e intrecciare le realtà degli stati aderenti. Per il periodo 2021/2027 Erasmus+ dispone di una dotazione finanziaria pari a 28,4 miliardi di euro, che rappresentano un importo quasi doppio rispetto al Programma precedente (2014-2020).

Sempre sul fronte comunitario, è interessante la proposta di Emmanuel Macron, che con la presidenza di turno francese del Consiglio Europeo vorrebbe far applicare, in tempi molto stretti, un salario minimo in tutta l’Unione. Un tema che tra l’altro fa parte anche dell’agenda del governo semaforo tedesco, mentre è entrato e uscito, senza una valida ragione, dal dibattito italiano, ormai impegnato da mesi a parlare quasi esclusivamente di Covid ed elezioni del Quirinale, come se il resto fosse derubricato a contorno.

Almeno, nell’ultima legge di bilancio, il governo Draghi ha posto un primo rimedio all’opportunismo sui luoghi di lavoro, attraverso una normativa che coinvolge anche le regioni italiane. Come riporta Avvenire, ai tirocinanti dovrà essere riconosciuta una congrua indennità di partecipazione. Tutti i tirocini dovranno essere tracciabili e monitorabili con una comunicazione obbligatoria. Sarà inoltre necessario redigere un bilancio delle competenze e rilasciare una certificazione di quelle acquisite. Infine, le sanzioni per la mancata corresponsione dell’indennità di partecipazione andranno dai mille fino a 6mila euro. La Conferenza Stato-Regioni avrà, inoltre, il compito di stabilire la durata massima del rapporto, il numero limite di tirocini attivabili dall’impresa (basato sulle dimensioni dell’attività) e il numero minimo di praticanti che un’attività deve prendersi in carico. Ad ogni modo, nei prossimi sei mesi la conferenza dovrà stabilire un accordo più completo per strutturare questa realtà.

È chiaro che le normative proposte rappresentino un utile strumento per limitare i danni provocati da questo uso improprio del lavoro. Ma per eliminare questa pratica occorre fare di più: se i controlli nelle aziende sono necessari e gli incentivi statali sono utili, lo è, forse fin di più, prendere atto che una cultura consumistica applicata ai contesti di lavoro sia del tutto fallimentare, mentre una più umanistica sia assai più vincente. Il problema del costo del lavoro non può gravare tutto su giovani e immigrati, quali ultima ruota del carro d’Italia. È necessario cambiare cultura e rendersi conto dei limiti, ormai oltre l’inaccettabile, che si sono raggiunti negli anni, inseguendo una deregolamentazione del mondo del lavoro che considera l’essere umano una risorsa e nulla più.

di Roberto Biondini e Claudio Dolci