Ci risiamo, cambia il governo e con esso le proposte di legge più scomode ripartono daccapo, come in gioco dell’oca senza fine che lascia più annoiati che stupefatti i cittadini e le istituzioni. Questa volta ad essere in procinto di ripartire dalla casella di partenza è il ddl Concorrenza varato dal governo Draghi, che prevedeva la messa a bando delle concessioni balneari e l’adeguamento del servizio di trasporto pubblico (quindi anche e soprattutto dei taxi) e che ora dev’essere ratificato da un governo che ha come ministro del turismo Daniela Santanché.
Qualche dubbio con annesso sopracciglio alzato è più che legittimo, visto che nel governo ci sono anche Salvini e Meloni (nonché Berlusconi) e infatti Milena Gabanelli ha già dedicato uno dei suoi DataRoom sul tema, ribadendo il concetto: basta gioco dell’oca. La direttiva Bolkestein è stata adottata dall’Ue nel 2006 e da allora in Italia è stato un susseguirsi di “sì, la implementeremo, ma domani”, senza mai specificare che cosa si intendesse con questa formula. L’ultimo governo Berlusconi decise che quel domani sarebbe stato il 31 dicembre del 2015, poi Monti optò per il San Silvestro del 2020 e Conte, che i multipli di cinque non li voleva usare, aveva proposto per direttissima il 2033. In breve, prima di Draghi l’idea della politica italiana era quella di adottare la direttiva Bolkestein con soli 27 anni di ritardo rispetto a quanto stabilito dall’Ue (sempre nel migliore degli scenari) e una lunga sfilza di richiami e multe da parte della comunità europea.
Draghi, dal canto suo, propose di porre di freno a tutto ciò anticipando la regolamentazione delle licenze al 31 dicembre del 2023, così da poter raggiungere anche tutti gli obiettivi previsti dal Pnrr (anche se non strettamente necessari per l’ottenimento dei fondi), ma soprattutto sanare un contenzioso che danneggia più l’erario italiano che qualche burocrate di Bruxelles. Risultato? Il governo è terminato in anticipo e ora c’è il caso che quello nuovo, per mezzo della neoministra del turismo, possa decidere che i tempi siano stati anticipati frettolosamente. A Palazzo Chigi quella sulle concessioni è una battaglia che non può finire nel 2023; d’altronde,vi sarà ben una via di mezzo tra 2023 e 2033? La risposta più ovvia è un secco no, sostenuto dal fatto che l’Italia è già in infrazione da anni e che tergiversare ulteriormente non farebbe altro che confermare l’inamovibilità italica. Già, perché oltre al ddl Concorrenza resta ancora aperta la questione Tim, Monte dei Paschi, Ilva e quell’arcinoto carosello di aziende private e pubbliche (la combinazione peggiore si trova nel guado tra questi due estremi) ove nessuno vuole decidere davvero che cosa fare, se non rimandare a domani. In questi giorni verrà varata la finanziaria del 2023, sapremo di più su quello che il governo più a destra della storia repubblicana vorrà fare. Ma se anche Mario Draghi dovette scendere a patti con i sindacati dei tassisti qualche mese fa, difficile pensare che l’applicazione della direttiva UE avverrà linearmente.
Il tema delle liberalizzazioni in Italia è a tutti gli effetti un evergreen. L’Italia è la penisola liberista quando si tratta di criticare l’assistenzialismo statale (come nel caso del Reddito di Cittadinanza) o vincere le elezioni contro i comunisti. Il nostro è lo stivale delle corporazioni e della difesa dello status quo quando si tratta di creare più concorrenza e aiutare sia il consumatore che l’innovazione.
Se una famiglia presso uno stabilimento balneare può arrivare a pagare centinaia di euro per un solo weekend al mare, allo Stato arrivano solamente 2.500 euro l’anno, che nel 2022 sono diventati 2.698 per gli aumenti Istat (qui il decreto- legge 14 agosto 2020, n. 104, art. 100). Una cifra che si ripaga con l’affitto di 2 ombrelloni per 3 mesi a 15 euro al giorno. E il servizio chiaramente non è ottimale essendo di fatto in una situazione di oligopolio dove la concorrenza è quasi nulla.
Simile situazione si riscontra per il servizio taxi, così riporta DataRoom: “la legge che disciplina il settore è la n. 21 del 1992 che rinvia ai Comuni il compito di stabilire il numero di licenze, i turni con il numero di taxi per fasce orarie e le tariffe (art. 5). Chi ha una licenza da più di 5 anni, o ha compiuto i 60 anni, o per malattia, può indicare al Comune a chi trasferirla. In caso di morte può passare a uno degli eredi, o a chi indicato da loro (art. 9)”. Praticamente un’oligarchia ereditaria dove è impossibile entrare, con le licenze che se vendute possono arrivare a costare 200mila euro. E il servizio ne risente: a Milano, l’allora assessore ai Trasporti Marco Granelli ammise: «È necessario ampliare il contingente in servizio con 450 nuove licenze». Il motivo? Sulle 33.400 chiamate al giorno tra le 8 e le 10 ne risulta inevaso il 15%; tra le 19 e le 21 il 27%, il sabato e domenica tra le 19 e le 21 il 31%; tra mezzanotte e le 5 il 42%. E casi comprovati aggiungono spesso l’indisponibilità ad usare i mezzi di pagamento elettronici per le corse già care di per sé.
Ma a Roma di rivedere la liberalizzazione di questi settori non ne vuole proprio sentir parlare: le associazioni collegate hanno un potere lobbistico al limite della comprensione razionale. Volta dopo volta escono le paure degli acquisti rapaci delle “multinazionali straniere” contro “l’azienda di famiglia italiana”. Ma alla prima pagina di qualsiasi libro di testo di microeconomia già si legge e si capisce come in un mercato economico sviluppato come lo è il nostro, è la concorrenza il motore principale per migliorare i servizi e trovarne dei nuovi. Ed è umano (troppo umano!) che quando invece la concorrenza venga a mancare allora subentri di petto la speculazione: vedere i prezzi delle materie prime per credere. Un italiano che volesse intraprendere la carriera di bagnino o di tassista (ma questo vale per qualsiasi classe di impiego che è protetta dalla concorrenza) non potrebbe avere la possibilità di farlo perché il blocco all’entrata è molto alto rispetto che altrove. Non sono quindi gli imprenditori italiani ad essere penalizzati dalla concorrenza ma lo sono gli imprenditori italiani che propongono prodotti concorrenziali.
Non vogliamo considerare il lato economico per i consumatori? Non vogliamo considerare il profitto gratuito dovuto all’oligopolio? Non vogliamo considerare la perdita secca delle entrate nelle casse dello Stato? Non vogliamo neppure considerare il lato etico, semmai ce ne fosse bisogno? Sappiamo almeno che queste regole che ora sembrano essere state imposte dall’alto fanno parte di una struttura (la UE) che non solo come nazione abbiamo accettato di farne parte ma agisce anche in nome di un parlamento eletto dai cittadini delle nazioni aderenti. Non si vuole ascoltare il turpiloquio della teoria economica? Si ascolti almeno la volontà dei cittadini che hanno detto basta, con la legge Bolkestein, alle corporazioni e sì alla libera concorrenza!
Di Roberto Biondini e Claudio Dolci
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