Luglio 26, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Il soft power: la nuova arma delle autocrazie

Pensare che le guerre si vincano solo con carrarmati e soldati significa ignorare il potere del soft power, che dal XX secolo in poi ha determinato l’estendersi, ed il rimpicciolirsi, delle zone d’influenza delle principali potenze globali. Blue jeans, hamburger e film sono stati a lungo impiegati dagli Stati Uniti durante la guerra fredda come strumento per intercettare e deviare l’orbita di tutti quei Paesi satellite, Italia compresa, che dopo la caduta dei totalitarismi hanno mostrato incertezza circa il loro posizionamento geopolitico. L’idea è semplice, se coercizione fisica (quindi militare) ed economica falliscono, allora può valer la pena impiegare strumenti di condizionamento di carattere culturale, tecnologico e terroristico. I quali, per loro natura, non vengono percepiti immediatamente come invasivi, nonostante esercitino spesso un potere pari se non superiore a quelli di natura coercitiva.

Ed in effetti, l’ammirazione per il capitalismo e per lo stile di vita della società occidentale (ovvero quella a stelle e strisce) crebbe molto sia durante la Guerra Fredda, sia dopo la caduta del comunismo, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo. Tant’è che molte delle democrazie sviluppatesi dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno preso ispirazione dalle democrazie occidentali allora più influenti (Usa e Regno Unito in testa). Ma il passaggio al XXI secolo ha comportato un capovolgimento di scenario, il quale pone oggi in discussione quel sodalizio instauratosi tempo fa tra diplomazia tradizionale di stampo occidentale e il soft power.

Che cos’è il soft power?

“Un Paese può ottenere i risultati che desidera nella politica mondiale perché altri Paesi – ammirandone i valori, emulandone l’esempio, aspirando al suo livello di prosperità e apertura – vogliono seguirlo. In questo senso, è anche importante stabilire l’agenda e attrarre altri nella politica mondiale, e non solo costringerli a cambiare minacciando la forza militare o sanzioni economiche. Questo soft power – convincere gli altri a volere i risultati che desideri tu – coopta le persone anziché costringerle.” Questa è la definizione e il meccanismo del soft power spiegato da Nye Joseph e finché il mondo è stato unipolare (salvo la parentesi dell’URSS), dietro l’influenza dell’egemone c’erano solo gli Stati Uniti.

Oggi però il mondo è diviso in almeno due blocchi: da una parte ci sono le democrazie di vecchio conio e dall’altra i nuovi regimi autoritari, i quali condividono tra di loro un unico grande comun denominatore, ovvero ristabilire la natura multipolare dei rapporti di forza geopolitici. Cina, Russia, Arabia Saudita, Turchia, India e molti altri Paesi, che tra l’altro si sono astenuti durante il voto dell’Assemblea Generale dell’Onu (chiamata ad esprimersi sulla sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti Umani per quanto accaduto nel conflitto in Ucraina) pretendono il loro posto alla tavola dei potenti e non più da paria.

La natura del potere d’influenza di questi nuovi attori geopolitici è presto spiegata attraverso due esempi, il primo è quello della guerra commerciale, tuttora in corso, tra Cina e Stati Uniti (che nell’era Trump accelerò in modo dirompente coi i dazi e il caso Huawei), il secondo, invece, riguarda il ricatto del gas e del grano imposto dalla Russia dopo le sanzioni varate dall’Ue e l’intero blocco Occidentale per fermare l’invasione dell’Ucraina.

Nel primo caso, quello della guerra commerciale tra Cina e Usa, le due potenze si sfidano ancora oggi, giorno dopo giorno, per affermare quale sia il miglior sistema per affrontare le sfide globali e cercano, in modalità perlopiù diplomatica (fatta eccezione per l’incognita di Taiwan), di vincersi a vicenda. Ad oggi, salvo le tensioni innescate dagli annunci, la guerra viene portata avanti con microchip, acquisto di titoli di Stato e container. Caso diverso, invece, è quello Russo, ove vi è anche il sostegno militare da parte dell’Occidente nei confronti dell’Ucraina e per questo uno scontro commerciale ben più serrato. Entrambi questi esempi mostrano come il soft power americano resti attrattivo solo per alcuni Paesi del mondo e venga del tutto rispedito al mittente in altri i quali, a loro volta, esercitano il proprio.

Questo scontro globale è propriamente un conflitto tra due mondi e altrettante visioni differenti, in cui l’ammirazione reciproca ha ceduto il passo a uno scontro acceso.

L’arma degli influencer: il soft power che non ti aspetti

Tra le armi più potenti e allo stesso tempo più furtive nelle mani delle autocrazie ci sono gli influencer, che altro non sono che un aggiornamento 2.0 dei film americani post Seconda Guerra Mondiale. Come riportato dal Fatto Quotidiano, in un articolo di Giulia Pompili, “Un nuovo studio condotto da Fergus Ryan, Daria Impiombato e HsiTing Pai e pubblicato dall’australian strategic policy institute, uno dei think-tank più importanti per quanto riguarda gli affari cinesi, svela i rapporti tra quelli che potrebbero sembrare semplici cittadini cinesi che usano internet per nazionalismo e veri dipendenti della propaganda.” D’altronde chi mai penserebbe che dietro a un video di cucina o sui costumi cinesi si nasconda in realtà il manifesto di propaganda del Partito Comunista? Eppure, succede, come dimostra il blocco da parte di Twitter dell’account di @Xinjiangguli perché fonte di disinformazione. Ed in questo solco si muove anche l’Arabia Saudita.

In un’inchiesta, anch’essa pubblicata dal Fatto Quotidiano a firma di Yunnes Abzouz, viene raccontato come attrici e attori, travel blogger modelle e persino calciatori si siano prestati a viaggi in Arabia Saudita, dietro lauto compenso, per incensare l’immagine del Paese da cui è venuto il mandato per la morte del giornalista dissidente Khashoggi. D’altronde, “se l’Arabia Saudita, per promuovere i suoi siti turistici, ha deciso di fare ricorso alle star di Instagram, invece di usare forme di pubblicità più tradizionali, è perché il regno gode di cattiva reputazione e quindi non può permettersi il lusso di una comunicazione più convenzionale.”. In tal senso emerge con forza l’azione persuasiva del soft power a mezzo influencer, la quale può essere accoppiata al terrorismo, come emerge dall’analisi del quadro geopolitico africano.

In Burkina Faso siamo già al secondo colpo Stato in meno di un anno. Il primo, condotto da colonello Paul Henri Demiba, mentre il secondo è stato portato a termine da Ibrahim Traoré. Ed è dietro a quest’ultimo che sembra celarsi la mano dell’oligarca russo Yevgeniy Prigozhin e della Wagner (l’esercito di mercenari al soldo di Putin). Il modus operandi, come riportato da Andrea Lanzetta su Tpi, è lo stesso adottato in altri Paesi africani del Sahel, come il Mali. Scrive Lanzetta “come certifica anche un’inchiesta di Jeune Afrique, Mosca sfrutta diversi influencer che si battono contro il colonialismo […]. Le legittime battaglie di questi influencer e attivisti sono rivolte contro il vecchio colonialismo, soprattutto di matrice francese, tesi che Putin riesce a sfruttare per i propri scopi espandendo la sua influenza in Africa”. L’obiettivo dell’azione russa è lo stesso che perseguì la Cina con i vaccini contro il Covid: ottenere l’accesso a risorse naturali in cambio di tecnologia ed appoggio militare (con i militari, com’è in Libia). Sempre Lanzetta chiarisce come “in un rapporto del Center for Strategic & International Studies la Russia sembra ricorrere al gruppo Wagner più come mezzo per garantirsi l’accesso a porti, aeroporti e risorse naturali in Africa allo scopo di finanziare le proprie attività che come forza efficace sul campo di battaglia”.

Il ruolo della diplomazia

Tutti questi casi dimostrano come l’appeal delle democrazie stia cedendo il passo alle autocrazie ed il loro soft power. D’altronde, come dimostra il caso dei vaccini anti Covid-19 e quello delle compensazioni economiche per il cambiamento climatico, è evidente come oggi la democrazia arrivi troppo spesso in ritardo e come la sua azione possa alle volte persino essere ribaltata dalle autocrazie. Si pensi ad esempio alle sanzioni per fermare la guerra in Ucraina, o ai divieti di inquinamento previsti per Cina e India (grandi assenti della Cop 27). Rispetto al mondo unipolare post caduta del muro di Berlino, oggi è in corso un’ascesa delle autocrazie, le quali utilizzano gli stessi mezzi utilizzati in passato da Stati Uniti, Regno Unito e Francia, ma con maggiore efficacia, almeno per quanto riguarda l’uso del soft power. Troppo a lungo ci si è dimenticati che lo scontro tra potenze non riguarda solo il piano economico e militare, ma coinvolge direttamente le popolazioni, le quali hanno bisogno di una narrazione efficace che dia un senso al loro sforzo. Soprattutto oggi, in un contesto dove il rallentamento della globalizzazione si fa sentire con maggior vigore e crescono quasi ovunque tensioni sociali prive di argine.

Che modalità verrà quindi utilizzata nel prossimo futuro dalle potenze mondiali per raggiungere i propri obiettivi? Il parere di chi scrive è che il soft power delle democrazie stia perdendo forza giorno dopo giorno. In quei paesi sottosviluppati dove in passato il capitalismo e l’asse atlantico hanno o avrebbero potuto avere enorme forza, il soft power è in effetti ancora un’arma adeguata ma vincente per le nuove autocrazie, in primis la Cina. D’altra parte, la diplomazia rimarrà centrale tra i due blocchi per evitare scontri più accesi (o per concluderli). Se la fine della Guerra Fredda ci aveva fatto pensare che fosse arrivata anche la fine della Storia, gli eventi recenti ci fanno ben vedere come ciò fosse una sciocchezza. La diplomazia dall’alto, quella pensata e ragionata continuerà essere centrale per gli stati occidentali che sono a rischio crisi strutturale in questa epoca storica. Guardare film hollywoodiani, credere nel sogno americano e ottenere e difendere certi diritti etici ci faranno sicuramente sentire meglio ma non ci difenderanno più davanti al Nuovo Mondo che si sta formando e che è giorno dopo giorno ci sta prendendo il posto come player centrale. Ci andrà bene lo stesso?

Di Claudio Dolci e Roberto Biondini