4 min di lettura
I nodi sono fatti così, crescono nell’incuria e ignorano il pettine che prima o poi, almeno si spera, li rimetterà in riga. Tra le necessità ambientali, la mancata volontà sociale e gli errori politici, la matassa verde si sbroglia difficilmente. Lo dimostra il recente contesto europeo e geopolitico, in cui da giorni si parla della direttiva europea sulle case green e quella sullo stop ai motori diesel e benzina, nonché del piano IRA voluto da Biden e in ultimo il blocco alla cessione dei crediti del superbonus 110. Tutti questi elementi politico-economici altro non sono che nodi posti di fronte al grande pettine del riscaldamento globale, il quale impone a tutti quelli che negli anni hanno detto “tanto c’è tempo” una brusca retromarcia, che però costerà caro ai conti pubblici e privati.
Il primo elemento da cui partire è l’UE, che dopo anni di discussioni e rinvii per i veti incrociati, ha finalmente trovato la forza politica per attuare un piano su larga scala di riduzione delle emissioni, il “Fit For 55”. L’obiettivo di questo piano è quello di ridurre, entro il 2030, del 55% le emissioni di C02 rispetto ai livelli registrati nel 1990. Un’idea che trova la sua logica in un altro dato: dal 1990 ad oggi è stata immessa nell’atmosfera una quantità di CO2 pari a quella prodotta in tutti i secoli precedenti (come ha ricordato Chicco Testa sul Foglio). Se si continuerà con il trend degli ultimi 30 anni, fatta eccezione per il periodo pandemico (l’unico in cui si sia verificato un calo delle immissioni), l’obiettivo di contenere le temperature entro i 2°C rispetto all’era pre-industriale fallirà miseramente. Tenuto conto poi che l’attuale coalizione europea vacilla, le elezioni del 2024 sono vicine, e che il contesto geopolitico della pax americana non sta meglio, l’UE ha deciso di imprimere un cambio di passo. Le case degli europei dovranno consumare meno, quindi entro il 2033 dovranno rientrare nella classe energetica D, ed entro il 2035 non sarà più possibile acquistare veicoli a benzina e diesel, meglio un auto elettrica. Le proposte sono buone, ma scontano entrambe dei problemi di fondo che si collegano al caso del superbonus 110 in Italia, e dell’IRA negli Usa.
Il cratere creato dai bonus edilizi nei conti pubblici italiani
Giorgia Meloni ha dovuto mandare giù una medicina molto amara, sotto la prescrizione puntuale del suo Ministro dell’Economia, Giorgetti, che posando lo sguardo sull’ultima colonna di destra dei conti pubblici ha fatto una scoperta: i bonus edilizi sono costati 110 miliardi di euro. La soluzione? Basta sconti in fattura e cessioni del credito, si prosegue solo con la detrazione nella dichiarazione dei redditi. Manco a dirlo le associazioni di categoria sono già sul piede di guerra, l’Ance, il Cna e Confartigianato mostrano i numeri dietro il “gratuitamente” di Giuseppe Conte: 25.000 imprese che non sanno come cedere il credito, 90.000 cantieri fermi e 150.000 lavoratori che vagano nell’incertezza del domani. D’altro canto, spulciando i risultati dei bonus edilizi si scopre come la maggior parte dei benefici economici sia finita al ceto medio, coloro che possiedono una casa indipendente, e come il rapporto tra euro speso e beneficio energetico sia materia di leggenda. Per Giorgetti il Superbonus e gli altri incentivi all’edilizia hanno sottratto e sottrarranno dal portafoglio di ogni italiano circa 2.000€. Conte, invece, rivendica i successi dell’iniziativa avviata sotto il suo esecutivo, “Pil cresciuto del 6,7% nel 2021 e del 3,9% nel 2022. Il Superbonus, come confermato da Censis e Nomisma, ha consentito la creazione di 900 mila posti di lavoro” (come riporta il sito Open). Come sempre vale la legge del pollo di Trilussa, i numeri non dicono tutto.
Vero, il Superbonus è stato tra i motori della ripresa post-pandemica ed ha rappresentano una misura volta a sostenere l’investimento per eccellenza degli italiani, la casa. Ma, è vero anche che le truffe dietro i bonus sono state eclatanti ed efferate, per non parlare della regressività della misura (niente tetto ISEE). Giorgetti ha avuto gioco facile a difendere lo stop voluto dal governo Meloni, gli è bastato citare Draghi “Il problema non è il superbonus. Il problema — disse Draghi — sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati. Chi ha disegnato quei meccanismi senza discrimine e senza discernimento, è lui, o lei o loro, i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti”. Preso atto di come sono stati sin qui gestiti i bonus edilizi, c’è il concreto rischio che per rendere più efficienti le 9 milioni in classe energetica G, occorrerà che ogni italiano prenda mano al portafoglio; la stima iniziale parla di 1.400 miliardi di euro.
Stop alla vendita di auto diesel e benzina.
Anche ammesso che si trovino i soldi per ristrutturare il parco immobiliare italiano, è assai difficile che dopo un simile esborso vi sia ancora lo spazio finanziario per dire basta ai motori diesel e benzina, eppure anche qui il pettine ha già dichiarato il giorno in cui incontrerà il suo nodo: 2035. La maggioranza Ursula non ha retto il voto e il Parlamento europeo ha approvato la misura con 340 si e 279 no. Qui i problemi, a differenza del dossier case green, sono tre. Il primo riguarda il costo sociale di questa iniziativa, che secondo quanto dichiarato da Thierry Breton, comporterà un taglio di 600.000 posti di lavoro in tutta l’UE e visto che le auto elettriche richiedono meno componenti, solo una parte di questi lavoratori troverà un nuovo impiego nel settore dell’automobile. E questo è il problema minore, perché il secondo, assai più complesso, riguarda l’elettrificazione di tutta l’infrastruttura stradale, ovvero le colonnine e l’energia che esse richiederanno per sostenere il parco auto circolante. Un esempio? Delle 36.722 colonnine di ricarica presenti in Italia, ben il 19% non è in funzione, perché non collegate alla rete. Servirebbero poi 150GW per ricaricare la rete e mantenerla attiva. Ora, vista la difficoltà che c’è già ora per rispettare gli obiettivi del Pnrr in materia ambiente, occorreranno correre e per davvero. Sempre ammesso che si riesca a superare indenni il terzo ostacolo: il mercato.
È da tempo che i principali marchi automobilistici stanno attuando una politica di investimento sui segmenti di lusso, tra cui quello dell’auto elettrica, in antitesi rispetto a quanto avviene oggi negli Stati Uniti e questo è un problema. Luca de Meo, CEO di Renault, non ha infatti gradito la variazione di prezzo, verso il basso, dei prezzi praticati da Tesla ed ha commentato con durezza la scelta dell’azienda di Elon Musk: “This is destroying value for the customer, for sure, when you do this.” In realtà la questione è un’altra, se calano i prezzi di Tesla, che guida il mercato dell’elettrica, allora devono diminuire anche quelli dei competitor come Renault. Ma quest’ultima, che nel 2022 ha fatto registrare il +5,6% sul suo margine operativo e perlopiù, il 40%, con la vendita di veicoli in fascia alta, non ha nessuna intenzione di abbassare i prezzi e riposizionarsi così velocemente. Una tematica, questa, che coinvolge quasi tutti i produttori di auto, Renault infatti è il terzo per auto elettriche, quindi gli altri se la passano anche peggio (fatta eccezione per Tesla e Toyota).
Se gli USA arrancano?
Tuttavia, anche negli States, patria della Tesla e del piano IRA di Biden, non tutto luccica grazie a fonti rinnovabili e i problemi da risolvere per una transizione energetica veloce sono molti. Il primo riguarda l’approvvigionamento delle terre rare e dei materiali per fabbricare le auto elettriche, poiché sono perlopiù in mano alla Cina con la quale gli Usa hanno da poco alimentato il conflitto in chiave tecnologica. Come riportato dal Financial Times “Together, China and Europe produce more than 80 per cent of the world’s cobalt, while North America makes up less than 5 per cent of production, according to the IEA. China also accounts for 60 per cent of the world’s lithium refining.” L’altro problema riguarda la forza lavoro e il tasso d’occupazione, ancora molto alto, che riguarda il mercato del lavoro americano. Serviranno infatti almeno mezzo milione di operai solo per far fronte all’attuale penuria e occorreranno standard di lavoro più alti, soprattutto in termini di garanzie e stipendi, perché è questo ciò che chiedono gli americani dopo decenni di globalizzazione. Ma sarà possibile?
Il pettine non perdona. I rischi che la transizione proceda troppo lentamente.
Sia il contesto europeo, sia quello americano ed italiano, stanno affrontando la transizione energetica con foga, ma i problemi sul tavolo, ovvero i nodi, sono tutt’altro che inclini a lasciarsi sciogliere. In UE mancano le risorse finanziarie per aiutare gli Stati dell’unione a gettare il cuore oltre l’ostacolo e senza questi soldi è difficile che Paesi come l’Italia possano seguire le nuove direttive green, anzi, è facile che le sabotino in seno al Consiglio. Il secondo problema riguarda il mercato, il quale oggi sembra intravedere la fine della crisi energetica imposta dalla guerra in Ucraina e che per questo potrebbe tornare a scommettere sul petrolio e il gas. C’è poi il problema del mercato dell’automotive, il quale guadagna ancora moltissimo dalla vendita di prodotti in fascia alta, per cui ha poco o nessun interesse a produrre auto utilitarie full electric per operai; tant’è che in Italia il parco auto elettrico si attesta a un modestissimo 2,6% e non ci sono i soldi per incentivi a pioggia stile Superbonus 110. Infine, senza potersi avvalere delle filiere della globalizzazione, abbandonate per ragioni geopolitiche, prima ancora che sanitarie, è difficile che la transizione non sollevi, anche in Europa, problemi inerenti al mercato del lavoro domestico.
di Claudio Dolci e Guglielmo De Puppi
Approfondimenti
Made in Italy: sì, ma quale?
La nuova corsa all’atomo
I primi risultati dell’Inflation Reduction Act (IRA): la manovra che spaventa l’Europa