Dicembre 4, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

La nuova Guerra Fredda: Price cap all’energia russa, una sfida impossibile?

I prezzi corrono e con loro il nuovo assetto mondiale: due blocchi sempre più divisi da un’escalation che non accenna a fermarsi. L’occidente cerca di replicare al taglio del gas russo con tetti al prezzo sull’energia e mira ad ottenere nuovi partner strategici con forti investimenti esteri. Dal lato opposto, i Paesi non allineati non sembrano essere spaventati da queste misure: siamo alla vigilia di una nuova Guerra Fredda?

È più importante salvare il presente o salvaguardare l’esistenza stessa del futuro? È questa la domanda a cui i leader del G7 stanno cercando di dare una risposta, senza però riuscire davvero ad uscire da quelle logiche del passato che hanno determinato proprio l’insorgere di questo quesito. D’altronde, se in passato si fosse agito tempestivamente sul tema del riscaldamento globale, stoppando i sussidi ai combustibili fossili, e su quello delle diseguaglianze, oggi fuori controllo, nonché sulla globalizzazione, accompagnandola a una visione basata su valori democratici e obiettivi comunitari, invece che solo economici, oggi il dilemma al quale il G7 cerca di dare risposta non esisterebbe neppure e staremmo raccontando un’altra storia.

L’Occidente potrebbe fare a meno del gas e del petrolio russo, non ci sarebbe una crisi idrica di queste proporzioni e forse neppure la guerra in Ucraina. Però la storia non si fa con i se e con i ma e oggi l’Occidente deve affrontare una sfida senza precedenti. L’inflazione galoppante che contagia i mercati è dettata dall’aumento dei prezzi energetici, i quali, a loro volta, hanno subito un’impennata a causa della guerra e dell’impossibilità (cercata più che evitata) di fare a meno dei combustibili fossili a cui le economie più avanzate si sono vincolate. Oggi dire di no al gas e al petrolio russo comporta un rischio economico e sociale sia per gli Stati Uniti di Biden, sia per il vecchio continente, e in special modo per Germania e Italia.

L’idea emersa dal G7

Al G7 tenutosi a Schloss Elmau, sulle Alpi Bavaresi, si è deciso di imporre un tetto al prezzo (price cap) al petrolio russo, così da indebolire la macchina finanziaria che muove l’esercito di Putin. Come riportato dal Sole 24 Ore, nel comunicato dei grandi della terra si legge: «mentre eliminiamo gradualmente il petrolio russo dai nostri mercati domestici, cercheremo di sviluppare soluzioni che soddisfino i nostri obiettivi di ridurre le entrate russe dagli idrocarburi e di sostenere la stabilità dei mercati energetici globali, riducendo al minimo gli impatti economici negativi, soprattutto sui Paesi a basso e medio reddito». Il problema, infatti, non investe solo una questione morale (ovvero fermare i carrarmati che avanzano in Ucraina), ma anche l’economia globale, poiché l’inflazione, soprattutto in Ue, è trainata proprio dai rincari energetici.

In tal senso, porre un tetto al prezzo del greggio dovrebbe consentire, almeno in teoria, di prendere due piccioni con una fava. Poiché se il petrolio russo costasse pochissimo, si abbasserebbe di conseguenza, sempre in linea teorica, anche il prezzo del greggio sui mercati, dando così fiato all’economia e ai cittadini che con le auto devono fare il pieno all’auto. Un problema quello del prezzo alla pompa che sta mettendo a serio rischio le elezioni di mid-term americane, dove Joe Biden è dato sfavorito proprio a causa dell’inflazione e dell’aumento dei prezzi della benzina.

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Perché il price cap rischia di fallire prima ancora di vedere la luce?

Tuttavia, bloccare una petroliera che può andare ovunque non è cosa semplice, a differenza di quanto si potrebbe fare un gasdotto, anzi, il rischio è che un tetto al prezzo del petrolio russo possa persino peggiorare la situazione attuale. Come ha ricordato anche l’agenzia di stampa Reuters, in passato si è già provato ad ostacolare Paesi considerati ostili (Venezuela, Iran, Iraq e Corea del Nord – per citarne alcuni) imponendo restrizioni sulle esportazioni, ma nel lungo periodo tutti questi esperimenti hanno condotto a un vicolo cieco lastricato di corruzione e abusi. Nel caso russo, inoltre, fissare un tetto al prezzo del petrolio si scontra con i costi irrisori al quale viene estratto un barile di greggio (3-4$), il quale consentirebbe un margine di profitto ampio anche se le quotazioni di vendita si fissassero a 25-30$. Occorre poi considerare che il meccanismo di blocco del prezzo ad oggi ipotizzato avverrebbe per mezzo delle compagnie assicurative delle spedizioni, le quali accompagnano quasi ogni petroliera lungo il suo viaggio (l’International Group of Protection & Indemnity Clubs ne copre ben il 95%). Però, Cina ed India, ad oggi tra i maggiori beneficiari del greggio russo a prezzi da saldo e stralcio (visto che al momento viene venduto con un 30% di sconto rispetto alla concorrenza) potrebbero aggirare i meccanismi internazionali imposti dai Paesi del G7 (come, tra l’altro, è già successo con lo Swift).

La sfida al petrolio russo, inoltre, risente della frammentazione del blocco dei Paesi del G7, che in linea teorica sono tutti d’accordo su un tetto al prezzo dell’energia, ma ne fatti ipotizzano strategie differenti. Politico riporta come Emmanuel Macron abbia proposto un tetto tout court al greggio (non solo quello russo) e insieme a Draghi un price cap al gas, vista anche la dipendenza che l’Italia ha nei confronti di questo combustibile fossile. Sul gas, infatti, se l’Ue facesse cartello e si mostrasse unita potrebbe esercitare una forza maggiore di quanto non avverrebbe col petrolio, proprio perché smontare e reindirizzare un gasdotto non è impresa semplice e uno stop all’esportazione comporterebbe dei problemi anche agli impianti estrattivi. Impianti che però sono presenti anche negli Usa, che dalla rimodulazione della domanda europea sta traendo beneficio, potendo vendere a noi europei il GNL. Se quindi l’Ue ha bisogno più bisogno di un price cap sul gas, rispetto a quello sul petrolio, quest’ultimo è diventato questione di vita o di morte per Joe Biden che con un prezzo di 5$ a gallone vede sfumare sotto gli occhi la possibilità di essere riconfermato alle elezioni di mid-term. L’economista Alessandro Penati, in un’analisi pubblicata da Domani, tratteggia in modo lucido l’attuale situazione: “è la mancanza di chiarezza sugli obiettivi a far perdere la guerra finanziaria all’occidente (nei confronti della Russia). Se l’obiettivo è azzerare le risorse per finanziare la guerra, questi provvedimenti (price cap a gas e greggio russo) avrebbero dovuto adottati tutti insieme, all’inizio dell’invasione o, meglio ancora, annunciati come deterrente credibile prima che cominciasse”.

Soldi per nuovi alleati ma mancano quelli per noi stessi. Si fanno i conti senza l’oste.

Ed è forse anche per via queste difficoltà legate ai vari price cap che adesso gli States e l’Ue stanno provando ad allargare il campo d’azione colpendo le strategie espansionistiche della Cina (tra i principali promotori del fronte pro-Russia). Come riportato dal Financial Times, Biden sta portando avanti una serie di interventi volti a promuovere lo sviluppo nei Paesi poveri; una sorta di Belt and Road Initiative alternativa, dal nome Partnership for Global Infrastructure and Investment. L’obiettivo, rilanciato anche all’incontro sulle Alpi bavaresi, è quello di mobilitare, da qui al G7 del 2027, risorse per un valore 600 miliardi di dollari. L’Ue stessa, attraverso le parole di Ursula Von der Leyen, vuole contribuire al progetto ben 300 mld di euro, con l’obiettivo, annunciato dalla stessa Presidente della Commissione europea, di “mostrare al mondo che le democrazie, quando lavorano insieme, offrire un percorso migliore per ottenere risultati” (“show the world that democracies, when they work together, provide the single best path to deliver results”).

Ma la UE ha davvero gli strumenti per promettere mari e monti? Ad oggi sembra proprio di no. Sul Il Foglio, uscito questo weekend, David Carretta lancia un grido di allarme sui fondi europei: “la cassaforte del bilancio pluriennale è vuota”. Pandemia, guerra ucraina, taglio del gas, inflazione hanno (giustamente) già impegnato il budget settennale dell’Unione Europea più ampio della storia (1.800 miliardi di euro). E non è solo questione finanziaria ma pure politica. Per fare un esempio, nel maggio scorso, la commissione aveva presentato il progetto RepowerEu per puntare sull’indipendenza energetica dalla Russia e spingere sulle rinnovabili. L’idea era quella di utilizzare i 225 miliardi di prestiti del Recovery non ancora speso ma, senza sorprese, i Paesi “frugali” hanno risposto picche all’idea. Le cose cambieranno difficilmente se gli stati membri non decideranno di modificare le regole che limitano al solo 3% l’incremento del budget europeo dovuto all’aumento dei prezzi. Ma riaprire i negoziati per aumentare i tetti del bilancio ordinario è considerato impossibile per ragioni politiche e di tempi (occorrerebbero due anni per un accordo).

Ma il punto focale è la solita scelta a metà che l’occidente (in primis gli stati UE) non riesce a lasciarsi alle spalle. Dichiariamo una guerra economica alla Russia (e in sfumatura anche alla Cina) per il suo comportamento violento e antidemocratico o, ad ogni modo, perché la si vede come nemico commerciale? Bene, allora bisogna essere uniti non solo nelle decisioni di condanna etica e morale e di impiego militare di più forze al confine, ma rende necessario anche uno sforzo comune nel proteggere prima i cittadini, spesso solo spettatori di queste scelte e che saranno colpiti da quest’ultime in modo forte e duraturo. Come dice sempre Carretta: “In caso di una crisi sistemica, non ci sono alternative al debito comune. Salvo il ciascuno per sé, che comprometterebbe la solidarietà e la tenuta europea”.

La frattura che divide il mondo in due blocchi. Sta tornando la guerra fredda?

E in tutto questo, la voglia più forte (in primis americana) è quella di scavare una nuova cortina di ferro in difesa dei valori occidentali minacciati dai Paesi emergenti di natura antidemocratica e autoritaria. Il casus belli della guerra in Ucraina sembra tracciare l’inizio di una nuova divisione del mondo, una nuova crociata occidentale per la difesa dei propri diritti, una vera e propria guerra fredda del nostro tempo. Ma il tempo va avanti e le cose cambiano e insieme a loro i pensieri di cosa sia giusto e sbagliato nelle società. In primo luogo, oggi l’occidente non è più la potenza economica di qualche decennio fa, o comunque, per meglio dire, la distanza di ricchezza tra i paesi del G7 e il resto del mondo oggi si è molto ristretta. E allo stesso modo, la crescita della popolazione mondiale (elemento fondamentale per la salute di un Paese) pende sempre più a favore dei paesi in via di sviluppo. Ma se da un lato, le forze economiche delle due fazioni si fanno sempre più simili, dall’altro, la visione di quali debbano essere i principi regolatori del mondo si fanno sempre più polarizzati: ad oggi, una serie di Stati, in cui vivono qualche miliardo di persone nel mondo, non hanno condannato fortemente la guerra in Ucraina o, ad ogni modo, commerciano ancora con lo Stato russo come se niente fosse. Gli stessi Stati che amano sempre meno l’occidente americano e che non ne invidiano i loro principi di libertà e democrazia. Se si dice che l’URSS sia implosa per il loro sistema economico fallace nei confronti del mondo occidentale, la situazione attuale, al contrario, è molto più in stallo ed incerta. Battersi uniti contro l’invasione russa farà sicuramente scouting tra i paesi occidentali ma farà davvero appealing al resto del mondo?

Di Claudio Dolci e Roberto Biondini