Luglio 23, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

Le crisi che faranno l’Europa

La Grande Moderazione sperimentata dalle economie occidentali a cavallo fra gli ultimi due secoli, grazie alla globalizzazione, sembrava aver eliminato il rischio di incappare di gravi crisi economiche. E tra i diversi attori coinvolti in questo esperimento mondiale, l’Unione Europea, soprattutto dopo Maastricht, pareva aver raggiunto la stabilità finanziaria e monetaria, nonché una crescita sostenuta. Ma dopo lo scoppio della bolla del mercato immobiliare nel 2008, l’Europa si è ritrovata di colpo in un tunnel senza luce ed esposta nuovamente alla fragilità economica, da cui ancora oggi sta cercando di uscire a suon di interventi degli istituti centrali e di politiche di bilancio pubblico più assennate. Eppure, se da un lato il susseguirsi ravvicinato di eventi destabilizzanti (crisi finanziaria, del debito sovrano, pandemia e guerra in Ucraina) ha portato alla luce l’incompletezza del progetto di federazione Europea, dovuto soprattutto ad una mancanza di coordinamento fiscale, finanziario e bancario, dall’altro lato, è pur vero che in questo lasso di tempo sono stati fatti importanti passi avanti verso un’azione comune davvero europea. Come si usa dire, non tutto il male viene per nuocere, tant’è che dal risveglio del torpore della Grande Moderazione le istituzioni europee hanno poi attuato diverse riforme strutturali. Oggi soffocate dalla miopia dei veti nazionali, dagli effetti collaterali di alcune scelte di carattere monetario e fiscale e da potenziali shock esogeni alla UE stessa.

La risposta dell’Ue e degli Stati di fronte alle insidie del mondo globalizzato

L’intreccio finanziario provocato dalla globalizzazione, ad esempio, aveva reso sensibile anche il Vecchio Continente alla crisi finanziaria americana dei mutui sub-prime. Crisi da cui gli Stati Uniti, grazie ad un’azione coesa della FED e del governo federale, uscirono con un risanamento delle banche private (si ricordi l’utilizzo del TARP come strumento), mentre in Europa la mancanza di un coordinamento politico sovranazionale in materia bancaria e finanziaria rese irrinunciabili le azioni dei singoli Stati come garanti ultimi del sistema bancario nazionale. Con l’effetto collaterale del gonfiarsi dei debiti sovrani di alcune nazioni, come la Grecia, più esposte alla crisi e più fragili fiscalmente, con l’esito finale di spaccare in due il continente, palesando i gravi squilibri nella produttività, nella bilancia dei pagamenti e nel bilancio pubblico in cui vessava parte della UE. Riconoscendosi diversi gli Stati europei hanno preferito salvare sé stessi invece di guardare al progetto di coesione che li univa e tuttora unisce.

Al contrario, la reazione politica delle istituzioni europee e degli stati membri è stata di seguito efficace per uscire dalla crisi del debito sovrano del biennio 2010-2011.

Dal punto di vista della politica monetaria, la BCE, sulla scia di quello che era già avvenuto negli USA, ha portato avanti il programma di acquisto di titoli (APP) all’interno del sistema finanziario per riportare l’inflazione al livello prossimo del 2% e immettere al contempo liquidità nel mercato, così da dare una spinta all’economia reale. Ed in modo ancora più incisivo, nel 2012, la creazione dell’OMT ha reso ancora più chiaro al mercato l’indirizzo di Francoforte, proteso verso la stabilizzazione della moneta unica, per evitare il rischio di ridenominazione del debito. Il sistema creato (e mai alla fine messo in pratica) mirava all’acquisto di debito sovrano e alla stabilizzazione delle economie del mercato unito allorquando l’instabilità macroeconomica non fosse dipesa da carenze particolari delle nazioni coinvolte che ne richiedevano l’utilizzo, ma piuttosto da speculazioni finanziarie che la BCE ritenesse ingiustificate. È fondamentale sottolineare che l’OMT sarebbe stato applicato solo in caso di una concomitante attivazione del MES da parte dello Stato richiedente e l’introduzione di un programma di riforme concordate con Bruxelles. Il gioco era chiaro: soldi garantiti dall’Ue in cambio di riforme precise e interventi nella gestione del bilancio pubblico dello Stato che si fosse avvalso di questi fondi.

Politiche monetarie convenzionali e non: quando e perché sono state adottate?

Successivamente, a seguito dello scoppio della pandemia, l’azione monetaria espansiva della Banca Centrale si è rafforzata con il programma PEPP, anch’esso con l’obiettivo di impedire una paralisi creditizia nell’eurozona e una conseguente crisi di liquidità degli attori in gioco posta in essere della brusca frenata dell’economia reale. Il blocco fisico imposto dagli Stati con i lockdown ha di fatto messo in crisi alcuni settori, tra cui in particolare quello dei servizi. Si era quindi reso necessario un intervento monetario espansivo accompagnato da politiche fiscali anticicliche di aumento del disavanzo, come anche segnalato dall’ex Presidente Mario Draghi. Ma l’utilizzo delle descritte politiche monetarie non convenzionali, per distinguerle da quelle convenzionali che riguardano invece la fissazione dei tassi d’interesse che erano però già state utilizzate oltre i limiti canonici, ha sicuramente contribuito all’uscita dalla crisi ma è stata a sua volta causa dell’ingrossamento degli attivi della BCE. Finché l’inflazione era rimasta bassa (quindi per tutto il periodo pre-Covid e lockdown annessi), ciò non era stato un problema strutturale, ma con la poderosa ripresa post-pandemica, frutto sia per una grande risalita della domanda in proporzione all’offerta presente, sia per un irrigidimento dell’offerta (i famosi colli di bottiglia), in particolare delle materie prime, intensificatasi poi con lo scoppio della guerra in Ucraina, ha reso necessario il processo inverso: politica monetaria restrittiva e di conseguenza la vendita dei titoli in “pancia” alla BCE.

È come se la BCE avesse fatto da elastico, allungandosi a sostegno dell’economia quando questa era in crisi, ovvero dopo la debacle del debito sovrano (2011) e post, per poi restringersi col surriscaldarsi dell’economia reale, quindi nell’era post-Covid.

Se da un lato, Francoforte non ha avuto difficoltà nell’attuare questa procedura, più complesso sarà capire ora se gli Stati con squilibri dei conti pubblici più marcati soffriranno di questo irrigidimento delle condizioni monetarie (l’accorciarsi dell’elastico) per quanto concerne la produzione economica e la vendita del proprio debito pubblico. Infine, è lecito domandarsi quanto l’iniezione di liquidità senza precedenti da parte delle Banche Centrali, nel periodo dal 2011 al 2019, abbia creato bolle speculative sulla falsa riga di quanto era successo con il mercato immobiliare (a cavallo tra il 2007-2008). Rispetto al tempo in esame, però, nuove regolamentazioni internazionali sono state inserite (Basilea 3 e Basilea 4) e per quanto concerne la UE, il prossimo paragrafo prende in esame le riforma apportate nel mercato unico.

Le regolamentazioni interazionali adottate dall’Ue per proteggere la sua comunità di Stati

Sempre sul lato finanziario, la crisi finanziaria e del debito sovrano hanno spinto le istituzioni europee a ristrutturare il sistema bancario in chiave unitaria attraverso la riforma dell’Unione Bancaria, basata su tre pilastri fondamentali: regole comuni per tutti le banche degli stati membri, vigilanza centralizzata nelle mani della BCE e azione uniforme nella gestione delle crisi bancarie. Se i primi due strumenti sono chiari nella loro struttura, più discrezionale e ad oggi meno convincente è come l’istituzione competente in materia di gestione della crisi bancaria (Single Sesolution Board) agisca: nonostante l’indipendenza strutturale dalla BCE, il board è comunque influenzato dalla sua vigilanza e l’utilizzo dell’innovativo procedimento del salvataggio interno (Bail-in) piuttosto che da quello esterno (Bail-Out) delle banche non trova ancora un’applicazione sistematica. Infine, all’Unione Bancaria Europea (UBE) manca ancora un quarto pilastro, quello relativo alla nascita di uno schema di assicurazione comune dei depositi bancari. Oggi ogni nazione procede singolarmente, e va da sé che non vi sia quindi equilibrio di rischio tra le nazioni della zona euro. Le banche detengono titoli di Stato in pancia in modo discrezionale e da qui nasce un evidente sbilanciamento. In teoria, i titoli di debito pubblico non vengono considerati rischiosi, non servono quindi accantonamenti specifici in contropartita. Ma la storia della crisi del debito sovrano ci ha insegnato che alcuni titoli, come fu per Grecia, Portogallo e Italia, possano, soprattutto in specifici periodi storici caratterizzati da instabilità, essere più rischiosi di altri. Ed ecco spiegato il fenomeno del circolo vizioso della crisi bancaria e quella del debito sovrano dello Stato che entra come garante: un doom-loop che si ripresenta troppo spesso. Se si vuole creare un sistema di assicurazione comune, bisogna innanzitutto imporre un limite alle banche private nell’acquisto dei titoli di debito del Paese della banca stessa.

Che cosa non ha funzionato nei meccanismi europei? Il fattore nazionale.

Dal punto di vista della politica fiscale la nascita dell’euro aveva portato con sé l’applicazione del cosiddetto Patto di Stabilità, attraverso il quale gli Stati membri avrebbero dovuto raggiungere nel lungo periodo obiettivi macroeconomici specifici, volti verso una convergenza economica efficace e uno stimolo per le riforme. La realtà recente ha però dimostrato come questa fosse perlopiù un’utopia, insufficientemente perseguita da parte della comunità europea e come i meccanismi stessi di rispetto delle regole (valutate in seguito non efficaci) fossero deboli. Difatti si è arrivati a delle riforme del Patto di Stabilità nel corso del tempo (two packs and six packs) che hanno portato in particolare alla creazione del semestre europeo. In aggiunta, è da sottolineare il passaggio dall’attuazione nella zona euro di manovre pro-cicliche a manovre anti-cicliche, a seguito della crisi finanziaria e l’utilizzo dell’indice del differenziale tra il PIL effettivo e il PIL potenziale, al fine di valutare le politiche fiscali degli stati membri, anche se poi di difficile applicazione pratica. In più, l’analisi delle condizioni macro di un Paese si sono estese alla verifica di alcune caratteristiche dell’economia in essere (disoccupazione, debito privato, bilancia dei pagamenti correnti). Ad ogni modo, la pandemia ha reso necessaria la sospensione del Patto di Stabilità e una riforma dello stesso dovrebbe essere in via di stesura a Bruxelles. Sempre la pandemia ha fatto da fattore catalizzatore per la creazione di un vero e proprio debito comunitario nella zona euro, come mai era successo nella Storia dell’unione. L’approvazione del Next Generation EU è stato come un lampo di luce accecante in una notte senza Luna prima della pandemia e sicuramente determinante per un passaggio in avanti per il progetto di federazione europea che era già unita, come visto, nella politica monetaria ma non in quella fiscale. Soprattutto gli Stati che avrebbero avuto difficoltà nell’ottenere nuovo debito sul mercato per concedere liquidità alle proprie economie durante la crisi pandemica (in cui spicca l’Italia) hanno beneficiato di debito a tassi d’interesse più bassi e di finanziamenti a fondo perduto. Si è chiaramente interposto l’obbligo di utilizzo delle risorse per riforme precise e per investimenti sulla produttività, con una vigilanza periodica delle istituzioni europee (il famoso PNRR).

Il futuro dell’Ue dipenderà dalla capacità di comprendere gli errori del passato.

Difatti, le diverse crisi che si sono susseguite a partire dal 2008 hanno portato l’Unione Europea a innovare le sue politiche monetarie e a procedere verso sia un’Unione Fiscale, sia verso un’Unione Bancaria. Il documento come evidenziato sin qui ha però messo in mostra alcuni aspetti ancora critici dell’area Euro che in assenza di un continuo processo di convergenza di politica comune, potrebbe facilitare l’emergere di nuovi squilibri tra gli Stati, considerando anche il verificarsi di shock esogeni sempre pronti a nascere, come la guerra in Ucraina. L’effetto politico di tale fragilità comunitaria riguarda l’insorgere di nuovi moti sovranisti che già hanno colpito duramente l’azione della UE nel decennio appena trascorso. Il bivio adesso è definito, o l’Ue e gli Stati membri imparano la lezione appresa in questi ultimi anni, oppure sono entrambi destinati ad essere fagocitati dai propri punti deboli e da attori geopolitici di stazza ben maggiore.

Roberto Biondini e Claudio Dolci