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Il cortocircuito istituzionale che stiamo vedendo in questi giorni oscilla tra la commedia e la tragedia; quello che è certo che l’Italia non ci fa una bella figura. Il ritardo ormai certificato nell’utilizzo dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra quasi inarrestabile e piuttosto che soffermarsi sul “perché” (come il pragmatismo vorrebbe), la classe dirigente continua a ragionare sul “chi”, alla ricerca di un capro espiatorio capace di espiare le colpe e di veicolare l’attenzione della popolazione.
Sta di fatto che ogni giorno che passa, l’esecutivo cerca redenzione dai suoi elettori, spiegando loro l’impossibilità di poter intervenire su questo dossier, avendo le mani legate causa governi precedenti ed istituzioni comunitarie. E c’è talmente tanta confusione tra note ufficiali, dichiarazione alla stampa, voci di corridoio e media più o meno schierati, che anche i più interessati alla vicenda fanno veramente fatica a comprendere dove stia la verità. E la verità nei confronti dei cittadini che sono i destinatari di questi miliardi che ora rischiano di perdere, pare al quanto necessaria. È umano che nessuno voglia metterci la faccia per giustificare l’eventuale perdita dei fondi del PNRR, farebbe vergognare chiunque, ma impegnarsi nella cosa pubblica significa proprio assumersi le responsabilità di ciò che riguarda una comunità, di assumersi le colpe almeno quanto vengono sbandierati i successi. La maturità, la civiltà di un Paese si può intravedere proprio da questo e l’Italia dimostra di essere una piccola nazione tra le grandi nazioni.
Ma a parte queste stoccate moraliste che magari non hanno alcuna presa nella società in cui viviamo, dove forse il cinismo e la propaganda prevalgono, la mancanza di trasparenza sul PNRR, la concentrazione dell’esecutivo a trovare dei responsabili piuttosto che lavorare sul recepimento dei fondi è una mossa politicamente strategica ma rischiosa: sarebbe meglio lavorare in silenzio con la Commissione Europea, cercando di capire quali sono i punti più sensibili, magari anche giustamente vista le condizioni della nostra macchina burocratica, e negoziare una via di uscita ma al contempo impegnandosi sodo per mostrare la serietà del sistema Paese.
Perché stavolta è diverso, i compiti a casa non vengono richiesti dalla UE per il semplice obiettivo di farli (che comunque fa parte di un gioco che l’Italia ha sottoscritto) ma perché in cambio Roma riceverebbe dei finanziamenti anche a fondo perduto che da sola non potrebbe senza subbio ottenere. Se si ragiona un attimo sembra proprio una follia che questi soldi in buona parte gratis vadano persi, ma pare che essa sia di casa nel Bel Paese.
Se si perderanno i soldi, poi, l’effetto tsunami è molto più potente della scossa di terremoto in essere: perdita di credibilità con il resto dei partner commerciali e finanziari, stop a futuri fondi comunitari e probabilmente perdita di alleanze strategiche nei posti che contano. Non a caso il professor Giavazzi, già consigliere di Mario Draghi ai tempi del governo, scrive sul Corriere che perdere la faccia oggi, anche in riferimento al MES, significa essere senza amici in sede di approvazione del nuovo Patto di Stabilità e Crescita che potrebbe esserci svantaggioso se gli altri Stati dell’Unione si metteranno d’accordo per una stretta di bilancio più di quanto noi vorremmo e potremmo sopportare per le condizioni precarie in cui versiamo. Insomma, l’effetto stigma sarebbe per noi geopoliticamente svantaggioso oltre che per tutte le motivazioni finanziarie già citate.
E si torna a dare la colpa a Germania e Francia, che a quanto trapela da Palazzo Chigi, sono in combutta per poter far sfigurare Giorgia Meloni agli occhi di tutti. Che il gioco della geopolitica sia una partita a scacchi è certo; che i Paesi frugali non vedano l’ora di dimostrare quanto siamo incapaci di usare fondi comunitari è probabile; che però Macron e Scholz siano così impegnati a far cadere Meloni è pura fantasia demagogica usata per martirizzarsi nel momento in cui non sa più cosa dire. Siamo sicuri che stiamo usando al meglio le nostre carte?
di Roberto Biondini
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