Luglio 23, 2024

Il Caffè Keynesiano

UN SORSO DI ECONOMIA PER LA PAUSA QUOTIDIANA

L’inflazione in Occidente e il bluff della destra al governo

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Più passano i mesi, più l’inflazione e la sua cura assumo connotati simili a quelli di un quadro di Escher, dove un rafforzato senso interpretativo si accompagna alla consapevolezza che esista almeno un’altra chiave di lettura, sempre di segno opposto rispetto a quella che si è così faticosamente e forzatamente assunta come univoca. Così ancora oggi, di fronte a un contesto macroeconomico incerto c’è chi dice che l’Italia non cadrà in recessione e che il peggio sia ormai passato. In realtà, come in un dipinto di Escher, queste affermazioni acquistano un senso solo se si enfatizza la figura e si tralascia il contesto, che pur esiste e descrive altro.

L’inflazione negli Stati Uniti: l’opinione del premio Nobel Paul Krugman

Per leggere questo contesto occorre abbandonare per un attimo il Vecchio Continente per volgere lo sguardo sull’altra sponda dell’Atlantico, dove i dati sull’inflazione iniziano ad acquisire un senso e, per converso, a destrutturare alcuni dei capisaldi sui quali si era eretta sinora la moderna dottrina economica. Dalle colonne del New York Times, infatti, il premio Nobel Paul Krugman si rallegra per la caduta dei prezzi alimentari (segno di una minor forza del morso inflazionistico), ma al contempo punta il dito contro il target del 2%: gold standard dei banchieri centrali di quasi tutto il mondo.

E la ragione di questo attacco al 2% è presto spiegata: è assai più facile far scendere l’inflazione dal 10% al 3%, che non da quest’ultimo valore al 2%, se non al prezzo di grandi sacrifici. D’altronde, come ricorda lo stesso Krugman, l’assunzione di questo gold standard avvenne nel 1990 per mano della Reserve Bank of New Zeland e da allora è stato adottato da quasi tutti i Paesi occidentali per via della sua capacità di coniugare tra di loro due diverse scuole di pensiero. La prima è quella capitanata da chi desidera mantenere a tutti i costi i prezzi stabili, assumendo parametri fissi per interpretare la realtà (tra questi ultimi rientra anche il famoso 3% del Fiscal Compact dell’Ue). Dall’altra, invece, siedono gli economisti che temono un valore dell’inflazione troppo basso, che potrebbe, qualora si presentasse una recessione, rendere più arduo risollevare l’economia. E chi ha presente cosa avvenne durante la recente crisi del 2008 e quella del 2011, sa quanto sia importante poter usare alcune leve (come quella dei tassi) per far ripartire gli ingranaggi del sistema economico.

Fin qui la teoria, quella dei paper e dei corsi di laurea, poi c’è ovviamente la realtà che racconta ben altro. Il famoso 2%, infatti, è stato per lunghissimo tempo solo sulla carta e negli intenti, visto che dal 2002 ad oggi i valori che ha assunto l’inflazione sono stati ben altri.

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Qualcuno dirà: “sì, ma in media, siamo intorno al 2%”, che suona un po’ come il pollo di Trilussa, dove c’è chi ha mangiato tutto e chi nulla, ottenendo comunque una media pari al 50%. Per questo la frangia degli economisti meno intransigenti, tra cui Krugman stesso, caldeggia l’idea di mantenere l’inflazione stabilmente più alta rispetto al 2%, precisamente tra il 3 e il 4%. In questo modo la stretta monetaria potrebbe allentarsi e con essa gli effetti indesiderati che induce sull’economia reale, tra cui: crescita della disoccupazione, mutui più cari, rallentamento della domanda e così via.

Draghi e il discorso al MIT: abituiamoci a un’inflazione più alta.

Mario Draghi stesso, allievo di Federico Caffè, durante un intervento al MIT ha descritto un quadro economico simile a quello descritto da Krugman, prospettando un’inflazione stabilmente più alta rispetto a quella sperimentata nell’ultimo ventennio.

Sostanzialmente l’ex Presidente del Consiglio distingue il fenomeno inflazionistico americano da quello europeo. Il primo, come descritto anche da Krugman, ha vissuto due fasi: nella prima, come in Ue, a spingere all’insù su i prezzi è stata l’offerta, per via degli effetti negativi della Globalizzazione. Nello specifico, catene del valore più lunghe (per sfruttare appieno mano d’opera a basso costo), un sistema di trasporto internazionale e la delocalizzazione dei beni necessari all’Occidente fuori dal suo perimetro (nonché dal concetto di democrazia). Il risultato? Con la pandemia si è bloccato tutto e i prezzi sono schizzati alle stelle, e visto che di solito piove sempre sul bagnato, l’invasione dell’Ucraina ha contribuito a distruggere ulteriormente il già fragile sistema d’approvvigionamento energetico dell’Ue. La differente e conseguente esposizione a questi due choc, e le risposte dei governi, hanno poi determinato il divario tra il fenomeno inflazionistico negli Usa e in Ue, quindi, rispettivamente, tra inflazione trainata dalla domanda e da offerta.

Draghi ha poi specificato come nell’Ue le imprese abbiano preferito scaricare i maggiori costi dell’inflazione sui consumatori, invece che ridurre i margini di profitto. Quest’ultimi, come sottolineato anche da altre fonti, sono cresciuti nell’indifferenza accentuando ancor di più le già forti diseguaglianze del nostro sistema economico. Su questo fronte, l’economica Joseph Halevi, insieme ad altri, ha da poco pubblicato un libro dal titolo “L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo”, in cui spiega come l’approccio canonico della Teoria  quantitativa della moneta (Tqm) potrebbe non essere utile per affrontare l’attuale fenomeno inflazionistico. In breve, secondo Halevi, l’inflazione d’oggi, soprattutto in Paesi come l’Italia, non ha innescato un rialzo dei salari e ciò è dovuto al fatto che le ingenti risorse destinate dai governi alla ripresa post-pandemica sono state assorbite perlopiù da pochi. E chi sono questi pochi? Principalmente le imprese. Per Halevi, i rincari energetici spiegano solo un 30% dell’attuale fenomeno inflazionistico, il resto sarebbe “spiegabile solo un aumento dei margini di profitto”. La prova sarebbe racchiusa nei dati del quinquennio 2017-2021, dove – come riportato da Halevi in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano“a una crescita del valore della produzione del 14% e un margine operativo del 29%, fa riscontro un aumento dell’utile netto (delle imprese) del 77,5%”.

L’intervallo preso in considerazione dall’economista è assai ampio, ma è un fatto che gli aumenti delle imprese non abbiano seguito in modo proporzionale l’incremento conseguente agli choc economici sopracitati, ed altresì vero che i salari italiani si siano contraddistinti – almeno negli ulti trent’anni – per la loro crescita, anzi. D’altronde, fu lo stesso Draghi, di fronte a ricavi privi di logica, a voler innalzare la tassazione sugli extra-profitti del comparto energetico per finanziare i numerosi bonus per i meno abbienti, senza però riuscirci.

Oggi l’ex banchiere, a distanza di un anno, ci riprova, suggerendo una ricetta simile al passato recente: maggiori tasse per sostenere il cambiamento climatico, il reshoring, e la lotta alla spirale salari-prezzi (che per ora resta contenuta), che porteranno, come sottolinea Draghi, al fatto che “i governi gestiscano deficit di bilancio sempre più alti” e “le banche centrali devono essere molto attente al loro impatto sulla crescita, in modo da evitare inutili sofferenze”. Semplificando molto, occhio al debito pubblico – e qui si parla all’Italia, ma non solo – e ai tassi d’interesse, quindi al livello d’inflazione ottimale che si desidera raggiungere (e qui Draghi si allinea, senza esplicitarlo, a Krugman: forse il 3-4% d’inflazione va già più che bene).

In Italia si continua a raccontare un mondo inverosimile.

L’aspetto che però desta più interesse nell’interpretazione di Krugman e di Draghi, quindi dell’inflazione negli Usa e in Ue, è la distanza che separa questo quadro economico dal dibattito pubblico italiano. Non più di un mese fa i principali Media italiani raccontavano infatti di un’Italia locomotiva d’Europa (una fake news, come riportato da Pagella Politica), con tanto di confronto impari con la Germania, come se una recessione a Berlino non colpisse anche Roma. In realtà, come sta emergendo dai dati Istat, qualcosa che non funzioni nel sistema economico italiano già c’è, per quanto ne dicano i cantori della crescita del Bel Paese.

Come riportato da Luca Orlando, in un articolo pubblicato dal Sole 24 Ore, “ad aprile Istat registra infatti per l’output il quarto calo mensile consecutivo, frenata dell’1,9% che riguarda ogni macro area”. Su base annua la riduzione della produzione italiana ha raggiunto il valore aggregato del 7,2%. A tale dato si accompagna poi un calo dell’export italiano extra Ue – meno 5,1% su Aprile – e una decrescita della produzione industriale in tutta l’area Ue, -3,6% (a Marzo 2023). Ed effettivamente i dati sul Pil Italiano, seppur migliori delle attese e delle altre principali economia dell’area Ue, sono i netto calo rispetto al rebound degli anni post-pandemici.

Di fronte a tale scenario non proprio roseo, ed anche incrociando le dita per quella che Krugman ha definito una deflazione immacolata (ovvero, un calo della domanda senza un aumento della disoccupazione), è difficile ignorare il monito di Draghi e le sue preoccupazioni per i diversi dossier che il governo italiano dovrà affrontare; eppure l’esecutivo continua a tirare dritto, anzi, decide pure di spegnere i fari e proseguire alla cieca. Lo conferma l’ultima disputa tra toghe e politica, che ha visto fronteggiarsi la Corte dei Conti e il Ministro Fitto.

Dopo giorni di fuoco il riassunto è questo: l’Italia è in ritardo sul Pnrr e la Corte dei Conti lo ha fatto presente, il governo ha quindi deciso di togliere il controllo delle toghe sull’avanzamento dei lavori, così da evitare altri inciampi. Occhio non vede cuore (sarebbe meglio dire portafoglio) non duole. Sulla questione sono intervenuti, in difesa del governo, esponenti di primo piano e non solo politico, come Sabino Cassese, però l’Ue – e il fact-checking di Pagella Politica – ha dato ragione alla Corte dei Conti. L’Italia deve attuare delle misure di controllo sull’avanzamento dei lavori e non si può pensare, come si è tra l’altro fatto sui vari bonus edilizi, di alleggerire i controlli per raggiungere più velocemente gli obiettivi.

Che l’Italia corra dei rischi e che il contesto macroeconomico attuale non sia del tutto positivo, lo dicono più voci. Il problema è che chi governa continua a interpretare i dati come farebbe chi guarda un quadro di Escher, quindi scegliendo di vedere la figura, un dettaglio e una lettura univoca della volontà dell’artista, senza però prendere in considerazione il contesto e le scelte, anche difficili, che occorrerà prendere nei prossimi mesi.

di Claudio Dolci