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“La teoria arriva fino a un certo punto.”: così reagisce l’Oppenheimer di Christopher Nolan di fronte a ciò che sfugge ai numeri, ma che esiste nel mondo fisico. E per certi versi è così che reagiscono anche i titani dell’economia d’oggi, premi Nobel e non, che provano ad attribuire un senso a un fenomeno noto, l’inflazione, ma che oggi si manifesta in modo imprevedibile rispetto al passato.
L’inflazione oggi: i dati degli Stati Uniti
Negli Stati Uniti la Fed, guidata da Powell, ha deciso di prendersi una pausa, lasciando i tassi d’interesse al massimo storico dal 2001 ad oggi, tra il 5,25-5,50%. Una mossa cautelativa visto che all’orizzonte vi sono sia dati positivi (inflazione core al 3,7% per il 2023 e 2% per il 2026; PIL al 2,1% nel 2023 e a 1,8% nel 2026), sia negativi, come il prezzo del petrolio oltre i 90$ e un tasso di disoccupazione praticamente invariato (intorno al 4%). Quest’ultimi due devono far riflettere economisti ed osservatori.
Se il prezzo del petrolio sale è logico aspettarsi che anche tutti quei prodotti ad esso associati, dalla plastica per le bottiglie usa e getta ai fertilizzanti usati in agricoltura, ma così come il cemento e ogni oggetto che necessita di questa fonte d’energia fossile per essere realizzato, subiscano un conseguente rialzo; e se i prezzi salgono l’inflazione continua a restare alta.
C’è poi il tema della disoccupazione. L’assunto è questo: visto che l’offerta non riesce a tenere il passo della domanda, allora ha senso frenare quest’ultima rendendo più difficile l’accesso al denaro per acquistare beni e fare investimenti. I libri di testo, infatti, insegnano ad ogni economista che la miglior medicina per imbrigliare un’inflazione galoppante consiste nel raffreddare l’economia. Tuttavia, un’economia più fredda produce anche, almeno in passato è stato così, ampie sacche di disoccupazione, come descritto dalla curva di Phillips.
Bene, oggi, almeno negli Usa, pare non essere più così. Tanto che si è creata una corrente di economisti che parla di “deflazione immacolata”, cioè priva di effetti negativi per l’economia reale (ovvero tassi di disoccupazione elevati); ma non tutti sono disposti a mettere in croce i dogmi di una vita.
Economisti nell’ottagono: Krugman contro Coy
Tra gli economisti si sa non è mai corso buon sangue, anzi. D’altronde è frequente che una teoria ne smentisca un’altra e i dati, com’è noto, hanno bisogno di filtri per restituire un senso, da qui le molteplici interpretazioni. Il confronto tra Coy e Krugman (sul New York Times) ci può aiutare a definire le argomentazioni di chi vede un’imminente recessione e chi invece scorge il sole oltre le nuvole.
Chi teme la recessione (Coy) lo fa sostenendo che ci vogliono 22 mesi dall’inizio dell’ascesa dei tassi prima che inizi la recessione vera e propria e la Fed non li ha mai alzati così tanto e così velocemente senza causarne una; alcune banche regionali sono fallite (SVB e Signature Bank), il mercato immobiliare è fermo a causa dei mutui troppo onerosi; la Bidenomics ha drogato l’economia con gli stimoli; le aspettative delle persone circa il futuro sembrano disattendere quelle della Fed. In sintesi, la recessione c’è, ma si cerca di non vederla. Chi invece guarda con ottimismo al presente e al futuro prossimo (Krugman) lo fa sostenendo che i modelli del passato mal si adattano a descrivere la congiuntura creata dal Covid-19 e dalla guerra; i dati ci mostrano un calo significativo dell’inflazione senza un aumento della disoccupazione; gli stimoli della Bidenomics potrebbero perdurare nel tempo; la percezione dell’inflazione attesa e reale delle persone è diversa da quella rappresentata dai dati. Tradotto, l’inflazione era transitoria, sta rientrando e non c’è motivo per preoccuparsi troppo (almeno al momento). Il punto di contatto tra questi due mondi? Mai fidarsi dell’ottimismo della Fed.
L’inflazione in UE: che cosa ci dicono i dati?
In UE l’indice armonizzato dei prezzi al consumo ha raggiunto il 4,6% (dal 5,2% di Agosto), mentre l’inflazione core (quella privata dell’energia, del cibo, dell’alcol e tabacco) non è migliorata più di tanto. Nel terzo trimestre del 2023 si assesta al 5,1%, contro il 4,9% di quello precedente (BCE), mentre i tassi d’interesse sono tra il 4,50-4,75%. Le economie stanno rispondendo in modo differente a seconda del caso, con l’Italia che rallenta e la Germania in recessione, mentre l’accordo sul patto di stabilità pare non trovare l’auspicato via libera.
Il rialzo dei tassi sta oggi colpendo le economie più fragili, che non necessariamente sono anche quelle con più debito. Ad esempio, lo spread tra i titoli greci e il Bund tedesco a 10 anni è a poco più di 146 punti base, contro il 192 dei BTP italiani. La Grecia, infatti, dalla crisi del debito sovrano ad oggi ha fatto delle riforme, mentre in Italia queste restano delle sconosciute (nonostante il Pnrr le imponga) e ciò genera sfiducia, la quale rende più difficile trovare i soldi per rifinanziare il debito pubblico senza pagare interessi da usura.
Tuttavia, anche le misure lacrime e sangue e l’aumento dei tassi d’interesse in chiave deflattiva non sono privi di problemi, che nel lungo periodo possono essere peggiori rispetto a un’inflazione elevata. E ciò ci riporta al confronto tra Coy e Krugman.
L’alta inflazione uccide, ma anche le politiche deflattive non scherzano
Al di là di queste dispute, infatti, il vero nocciolo della questione è se tenere fisso il target dell’inflazione al 2%, oppure se alzarlo al 3%. Il perché? Se si accettasse un target più alto si potrebbe già ora dichiarare vinta la lotta all’inflazione. Niente più rialzo dei tassi e un maggiore spazio, anche in futuro, per repentine crescite, che godrebbero di un punto percentuale in più d’inflazione per prosperare senza che le banche centrali intervengano a raffreddare tutto. Tuttavia, ripudiare lo standard che negli anni ha accompagnato almeno una generazione di economisti ha un costo, non solo reputazionale, ma anche sostanziale. Un’inflazione più alta significa applicare una tassa maggiore ai meno abbienti, che è poi la ragione per cui le banche centrali cercano in ogni modo di stabilizzare i prezzi. Chi subisce di più l’aumento di 20 centesimi di euro sul prezzo del caffè non è chi guadagna 2.000€ al mese, ma chi a stento arriva a 1.200€. Da qui l’iniquità con cui l’inflazione colpisce i redditi e impone strategie, anche dolorose, per rientrare nei ranghi.
Allora avanti con la lotta senza quartiere all’inflazione? Sì, ma attenzione che la cura non sia peggiore della malattia. Francesco Saraceno, su Domani, ci ricorda come la stretta monetaria agisca sia sul breve, sia sul lungo periodo, con effetti particolarmente perversi proprio su quest’ultimo arco temporale. Tra questi, citati da Saraceno, quello più preoccupante riguarda il bisogno di un cambio tecnologico che favorisca la transizione energetica, il quale richiede alti investimenti che però proprio la stretta economica soffoca. E “se tassi di interesse elevati dovessero finire per ostacolare la transizione verso le fonti di energia rinnovabile – scrive Saraceno –, il rischio sarebbe quello di un aumento dell’inflazione nel medio periodo a causa del mancato abbandono delle energie fossili”.
Il ritorno in massa al fossile produrrebbe una corsa al barile di greggio, con l’avvio di un circolo vizioso di fatto mai sedato. Inoltre, Saraceno, citando l’economista Dani Rodrik, critica l’approccio usato in Grecia, dove austerità e riforme hanno sì migliorato i fondamentali, ma anche azzoppato la produttività. Di fatto, in mancanza di incentivi e con la distruzione di sacche di settori scarsamente produttivi, non si è materializzato l’investimento in settori potenzialmente più promettenti, per via della scarsa domanda legata alla stagnazione del ciclo economico. “Comprimendo la domanda globale – continua Saraceno – in un momento in cui per motivi contingenti (la riorganizzazione post pandemica) e strutturali (la transizione energetica) il bisogno per l’economia di ricollocazioni settoriali è particolarmente acuto, le banche centrali rischiano di ostacolare le trasformazioni strutturali necessarie per una crescita robusta e sostenibile nel lungo periodo”.
L’inflazione cambia il mondo, ma non l’economia
Senza il tempo per riesaminare nel dettaglio le cause profonde dell’attuale inflazione (extraprofitti/Covid-19/Guerra in Ucraina/stimoli economici etc.), senza serie storiche abbastanza precise (il richiamo al periodo di Volcker ha senso, ma non è esattamente quello che sta succedendo ora), senza la possibilità di rimettere in discussione alcuni dogmi (il target del 2%, la curva di Phillips etc.), le attuali decisioni monetarie rischiano di produrre effetti perlopiù imprevedibili. Per ora, almeno sul breve periodo, quindi sul lato del controllo dei prezzi, pare stiano riuscendo a sedare l’inflazione, ma sul medio-lungo periodo è difficile prevederne gli effetti. Se poi Coy avesse ragione, e con lui altri nomi illustri come quello di Lawrence H. Summers, il peggio sarebbe a un passo dal piombarci addosso. L’unica certezza è che in questo momento la macroeconomia, come ogni scienza, si trova a un bivio, perché la teoria arriva solo a un certo punto, poi subentra la realtà.
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